        La disposizione dei cilindri &egrave; forse la caratteristica che, assieme al loro numero, distingue maggiormente i vari modelli di moto e consente di differenziarli uno dall&rsquo;altro. Tralasciando in prima battuta i boxer, che in effetti costituiscono un caso a parte, ci sono fondamentalmente due possibilit&agrave; per quanto riguarda l&rsquo;architettura dei bicilindrici: quella in linea e quella a V. L'angolo tra le valvole | Officina I bicilindrici a V  Nell&rsquo;ambito di quest&rsquo;ultima soluzione, la variabilit&agrave; &egrave; ampia in quanto l&rsquo;angolo tra i due cilindri pu&ograve; variare considerevolmente, cosa che ha una notevole influenza non soltanto sull&rsquo;estetica e sugli ingombri, ma anche sulla sonorit&agrave; dello scarico e sul &ldquo;carattere&rdquo; dell&rsquo;erogazione (o forse sarebbe meglio dire del feeling che viene trasmesso al pilota). Ognuno di questi due schemi ha i suoi punti di forza e le sue limitazioni. Come molti appassionati avranno sicuramente notato, qualche anno fa i bicilindrici di media cilindrata erano quasi tutti a V, mentre in seguito si &egrave; assistito a un forte ritorno dei paralleli (che negli anni Cinquanta e Sessanta, escludendo le realizzazioni americane, avevano dominato la scena). Attualmente il mercato offre di tutto ma tra le medie, oggi comprese tra 400 e 800 cm&sup3; all&rsquo;incirca, sembra prevalere nettamente l&rsquo;architettura in linea. Sui bicilindrici a V si potrebbe scrivere un libro. Nel corso degli anni ne &egrave; stato prodotto un numero impressionante e, per quanto riguarda la tecnica, si &egrave; visto praticamente di tutto. Alcuni modelli sono entrati nella leggenda mentre altri sono rimasti nell&rsquo;ombra ma non per questo sono stati meno interessanti, sotto l&rsquo;aspetto sia tecnico che storico. I primi bicilindrici erano quasi tutti a V. Per realizzarli, in fondo, bastava applicare un secondo cilindro al carter di un normale &ldquo;mono&rdquo;, piazzandolo a una certa distanza angolare dall&rsquo;altro. Il basamento era quasi uguale: due &ldquo;semigusci&rdquo; che si univano secondo un piano verticale a formare una specie di scatola (stiamo parlando degli anni nei quali il cambio era quasi sempre separato). Pure l&rsquo;albero a gomiti differiva ben poco da quello di un monocilindrico. In genere prevedeva due grossi volantini discoidali uniti da un singolo perno di manovella (quasi sempre mediante superfici di accoppiamento troncoconiche e grossi dadi di ritegno). Per l&rsquo;imbiellaggio, assai spesso si adottava lo schema a biella interna e biella esterna (con testa a forchetta, nella quale andava a inserirsi l&rsquo;altra). Questa soluzione &egrave; stata sempre particolarmente cara alla Harley-Davidson, che ha continuato a impiegarla sui suoi bicilindrici a V di 45&deg; anche dopo che essa era scomparsa dalla scena in tutto il resto del Mondo. Meno diffuso era il sistema, che invece da anni viene adottato universalmente, con le teste delle due bielle affiancate. Poco impiegato era lo schema a biella madre e bielletta. Negli anni Venti e Trenta nelle grosse cilindrate erano i bicilindrici a V a dominare la scena. Poi &egrave; entrata in produzione la prima Triumph con due cilindri paralleli progettata da Edward Turner e la situazione &egrave; rapidamente cambiata.  La disposizione dei cilindri in linea  Da allora, e fino alla seconda met&agrave; degli anni Sessanta, il panorama mondiale (eccezion fatta come detto per le Harley e, per breve tempo, per la Vincent) le bicilindriche di alte prestazioni sono state invariabilmente in linea. Il ritorno dell&rsquo;architettura a V si &egrave; avuto con le Guzzi della serie V7 e con le Ducati a L. In entrambi i casi l&rsquo;angolo tra i cilindri era di 90&deg;, ma variava la disposizione (trasversale nel primo caso, longitudinale nel secondo). Nel settore delle medie cilindrate la Morini con la sua 3 &frac12; ha rilanciato una soluzione importante che sembrava dimenticata, quella della V &ldquo;intermedia&rdquo; tra i due schemi classici, che prevedono rispettivamente angoli di 45&deg; e di 90&deg;. Nella moto bolognese era di 72&deg; (questo stesso angolo &egrave; stato impiegato molti anni dopo dalla sfortunata Voxan e dalla formidabile realizzazione Rotax 1125 per la Buell). In seguito hanno avuto grande popolarit&agrave; angoli di 52&deg; (Honda VT 500, Transalp e Africa Twin, apparse negli Anni &lsquo;80), di 60&deg; (Rotax 1000 per l&rsquo;Aprilia RSV, Harley-Davidson VRod e Revolution Max). La KTM ha invece concentrato le sue attenzioni sulla V di 75&deg;. Altri angoli &ldquo;anomali&rdquo; sono stati impiegati da Case come Aprilia (77&deg; nelle 450 e 550 da Fuoristrada), Honda (80&deg; nelle CX 500 e 650) e Yamaha (70&deg; nella XZ 550). Nelle classiche bicilindriche Indian la V era di 42&deg; mentre nell&rsquo;inglese Vincent era di 50&deg; (come nell&rsquo;eccellente Husqvarna da corsa degli anni Trenta). L&rsquo;angolo tra i cilindri ha un&rsquo;influenza fondamentale sull&rsquo;ingombro e sull&rsquo;equilibratura del motore, nonch&eacute; sulla spaziatura delle fasi utili. Per quanto riguarda queste ultime, quando i cilindri sono paralleli (cio&egrave; la V &egrave; di 0&deg;) e i perni di biella sono a 360&deg;, sono distanziate uniformemente. Se ne ha una ogni 360&deg; di rotazione dell&rsquo;albero a gomito. Al crescere dell&rsquo;angolo, tra i cilindri la spaziatura diviene pi&ugrave; irregolare. Quando esso &egrave; di 45&deg; le fasi utili si susseguono ogni 405&deg;&hellip; 315&deg;&hellip; 405&deg;&hellip; E quando &egrave; di 90&deg; ogni 450&deg;&hellip; 270&deg;&hellip; 450&deg;&hellip; In quanto all&rsquo;equilibratura, con una V di 90&deg; risultano bilanciate le forze d&rsquo;inerzia del primo ordine e la situazione &egrave; pi&ugrave; che soddisfacente. Le cose per&ograve; peggiorano al diminuire dell&rsquo;angolo tra i due cilindri. Per abbattere le vibrazioni che inevitabilmente insorgono si usano equilibratori dinamici che, nella grande maggioranza dei casi, sono del tipo con una o due masse eccentriche rotanti. Quelli con massa oscillante e finta biella, del tipo detto in gergo &ldquo;a batacchio&rdquo;, sono stati (scarsamente) utilizzati soltanto sui bicilindrici paralleli (vedi BMW F800 prima versione). In quelli a V in certi casi si pu&ograve; fare ricorso a uno sfalsamento del perno di manovella, che viene diviso in due parti con diverso posizionamento angolare. In campo moto questa soluzione &egrave; stata lanciata dalla Honda con i suoi motori a V di 52&deg; apparsi nei primi anni Ottanta (serie VT 500 e modelli derivati).  MotoGP, sinonimo di precisione | Officina       

La disposizione distingue i vari modelli: storia e virt&ugrave; delle scelte legate ai bicilindrici

Cilindri in linea o a V: le differenti filosofie | Officina

        Quasi tutte le soluzioni tecniche oggi impiegate in campo moto sono ampiamente standardizzate. Con il tempo &egrave; avvenuta una vera e propria selezione, che ha portato all&rsquo;affermazione di quelle pi&ugrave; razionali, ovvero pi&ugrave; convenienti sotto i vari aspetti (tra i quali ovviamente quelli economici). Eppure una certa possibilit&agrave; di scelta esiste ancora. I risultati ottenibili con alcune soluzioni diverse possono essere tutto sommato analoghi o almeno assai simili. Qui entrano in gioco le valutazioni dei progettisti (una volta a contare erano in molti casi i loro gusti&hellip;) e le proposte dei fornitori. Talvolta, comunque, non &egrave; facile individuare le ragioni di certe scelte tecniche. I tre cilindri "fantasma" | Officina I basamenti a tunnel  Tra le soluzioni alternative rispetto a quelle usuali troviamo i basamenti a tunnel, costituiti da un&rsquo;unica fusione. Li hanno impiegati con successo la Mondial, che negli anni Cinquanta ha conquistato fior di campionati mondiali, la BMW in tutti i suoi boxer a due valvole del dopoguerra (prodotti fino agli anni Novanta) e la Guzzi nei suoi bicilindrici della serie &ldquo;grande&rdquo;. In passato, quando si doveva compiere una scelta di questo genere entravano in scena il modellista e la fonderia. La Guzzi &egrave; passata, con la serie &ldquo;piccola&rdquo;, al basamento in due parti per convenienza di fabbricazione (lavorazioni pi&ugrave; agevoli e minor numero di scarti di fonderia dovuti a porosit&agrave; interne). Negli anni recenti la Morini ha impiegato nel suo bicilindrico 1200 un basamento in unica fusione, con robusto coperchio laterale (in cui erano alloggiati un cuscinetto di banco e due del cambio) che lo chiudeva sulla sinistra. Il radiatore piazzato davanti al motore, come vuole lo schema adottato universalmente, viene investito ottimamente dal vento della corsa ed &egrave; quindi nella posizione pi&ugrave; conveniente ai fini del raffreddamento. Mettendolo da qualche altra parte, per&ograve;, il motore pu&ograve; essere spostato pi&ugrave; in avanti. Ci potrebbero essere vantaggi in termini di guidabilit&agrave; (spostamento del baricentro) e la fuoriuscita dell&rsquo;aria non sarebbe ostacolata dalla presenza dello stesso motore, piazzato subito dietro il radiatore. Inoltre i tubi di scarico non sarebbero cos&igrave; vicini alla matrice di scambio. Cose non fondamentali ma che possono avere peso. I radiatori  Negli anni recenti la Honda, nella sua bicilindrica VTR 1000, ha impiegato due radiatori laterali disposti longitudinalmente. Ancora pi&ugrave; radicale &egrave; stata la Britten, che il radiatore lo ha collocato dietro al motore, disponendolo quasi orizzontalmente sotto il codone. Pure la Benelli ha fatto qualcosa del genere nella sua Tornado. Anche se si tratta di un componente di dimensioni contenute e dall&rsquo;aspetto tutto sommato semplice, il pistone &egrave; stato oggetto, pure in anni abbastanza recenti, di proposte interessanti e non soltanto a livello di disegno. Ha trovato qualche impiego in campo auto (su alcuni modelli BMW e Renault) il pistone &ldquo;matto&rdquo;, ovvero &ldquo;a X&rdquo;, sviluppato originariamente dall&rsquo;ingegner Bruni della Borgo (che faceva parte del gruppo AE). Per ridurre gli attriti il mantello era diviso, nelle zone di appoggio, in una parte superiore e in una inferiore da un&rsquo;ampia apertura. Sulle moto questa soluzione non si &egrave; vista, ma la finestratura nel mantello sul lato opposto a quello di spinta in certi pistoni di Formula 1 pu&ograve; ricordarla abbastanza da vicino. Per assicurare assialmente lo spinotto nei pistoni delle BMW quattro cilindri di Formula 2 e di F1 (turbo, iridata nel 1983 con la Brabham) si impiegava un sistema con una ghiera in lega leggera che veniva avvitata utilizzando un&rsquo;apposita chiave. Il vincolo era a prova di bomba! Questa soluzione non &egrave; stata utilizzata nel settore motociclistico dove invece ha avuto impiego (nella BMW 800 boxer) un sistema nel quale due anelli di ritegno Seeger sono installati in cave praticate esternamente, nelle estremit&agrave; dello spinotto, e non all&rsquo;interno delle portate del pistone, come vuole la pratica usuale. Negli anni Novanta, la KTM ha impiegato anche pistoni nei quali tra il mantello e le portate per lo spinotto non vi era un collegamento diretto. Queste ultime, infatti, erano costituite da due robuste appendici interne che partivano direttamente dalla testa del pistone, ottenuto per stampaggio a caldo e prodotto dalla Mahle. Lo spinotto era quindi corto e il mantello era intero, senza sfiancature o interruzioni di sorta.  Le nervature  Alle nervature spesso si attribuisce soltanto una funzione estetica, o a loro non si pensa affatto. Di frequente, per&ograve;, hanno una considerevole importanza dal punto di vista tecnico, anche in parti alle quali non si presta grande attenzione come i coperchi laterali. In questi casi possono contribuire in misura fondamentale all&rsquo;abbattimento delle emissioni acustiche. Dal punto di vista strutturale le nervature sono importanti perch&eacute; consentono di migliorare la rigidezza dei componenti senza penalizzare il peso. In passato le nervature che irrigidivano il basamento erano interne ed esso appariva perfettamente liscio esternamente. Oggi in molti casi non &egrave; cos&igrave;, ed esse vengono studiate con cura anche per impartire al motore un&rsquo;apparenza grintosa ma al tempo stesso piacevole e moderna. Alla Ducati sono maestri anche in questo. Non si deve pensare che le nervature siano importanti soltanto per gli organi fissi. Lo sono anche per alcuni di quelli mobili e in particolare per le bielle, che devono abbinare robustezza e leggerezza, soprattutto su motori di prestazioni molto elevate. Il fusto pu&ograve; avere una sezione a H, o H rovesciato (ma in quelli da corsa si possono avere anche sezioni differenti), e le nervature possono estendersi fino a interessare il piede. Pi&ugrave; complessa &egrave; la situazione per il cappello, che deve mantenere la corretta conformazione anche in presenza di fortissime sollecitazioni a trazione. Qui generalmente si impiegano una o due nervature, accuratamente raccordate con i piani di appoggio delle teste delle viti, onde evitare spigoli vivi o scalini, deleteri ai fini della resistenza a fatica. Il raffreddamento dei motori | Officina       

&Egrave; ancora possibile uscire dai canoni: gli esempi legati a nervature, radiatori, basamenti a tunnel e al pistone &ldquo;matto&rdquo;

Le soluzioni non standardizzate | Officina

        Chi avesse la fortuna di ritrovarsi nel garage una Vincent avrebbe tutti i motivi per ritenersi in possesso contemporaneamente di una rarit&agrave; e di una fortuna. I modelli bicilindrici costruiti da Philip Vincent dal 1936 al 1955 a Stevenage, citt&agrave; a una cinquantina di chilometri a nord di Londra (nota per aver dato i natali a Lewis Hamilton), contendono ai Brough Superior &ndash; noti come &ldquo;Rolls-Royce delle moto&rdquo; &ndash; la fama di pi&ugrave; illustri esponenti della produzione inglese nel periodo di massimo fulgore e oggi sono entrambi ricercatissimi, tanto che nelle principali aste vengono aggiudicati a somme stratosferiche. L'infinita storia della Demm | Polvere di Stelle La storia della Vincent  Nel 2018 una Vincent Black Lightning del 1949 &egrave; stata venduta a Las Vegas a un milione di dollari. Philip Conrad Vincent nacque a Fulham, un piacevole quartiere centrale di Londra in cui vivono anche moltissimi italiani, il 14 marzo 1908. La sua famiglia era emigrata in Argentina e possedeva un ranch in cui allevava bestiame nella provincia di Cordoba, ma era tradizione della comunit&agrave; inglese in Sud America che le madri in dolce attesa tornassero nel Paese d&rsquo;origine a partorire per garantire ai figli la cittadinanza britannica. Cos&igrave; fece, appunto, anche Ada Vincent, che poi con Philip torn&ograve; in Argentina, dove gli diede le prime nozioni educative, per poi avviarlo a una scuola privata inglese a Quilmes, un sobborgo di Buenos Aires. Ma evidentemente il legame con la Madre Patria era talmente stretto che, dopo questa prima parentesi scolastica, lui e le sue sorelle Marjorie e Gwendoline furono rimandati in Inghilterra a vivere presso lo zio John Vincent, un chirurgo veterinario, a Horndon on the Hill, a est di Londra, e a studiare con la cugina dapprima in casa con istitutori privati, poi nel prestigioso istituto della Harrow School. Philip Vincent fino a quel momento non aveva avuto alcun motivo per appassionarsi al motociclismo, ma ci si imbatt&eacute; per caso quando, durante una permanenza di alcune settimane nell&rsquo;ospedale della Harrow School, si trov&ograve; come compagno di stanza un giovane che invece stravedeva per le moto e per le corse. Ne fu coinvolto. Cominci&ograve; a far pressione su sua madre, restia ad accettare di aiutarlo a comprare una motocicletta, ma alla Vigilia di Natale del 1924 Ada cedette e Philip pot&eacute; acquistare una BSA a valvole laterali di seconda mano che per&ograve;, a causa delle eccessive vibrazioni del motore, fu sostituita poco dopo da una ABC, la bicilindrica boxer costruita dalla Sopwith, la Casa che durante la Grande Guerra aveva prodotto i famosi aerei da caccia Camel. Queste prime esperienze furono la chiave che apr&igrave;, nel cervello di Philip, la finestra su un panorama di idee, curiosit&agrave; e passione. Gi&agrave; nel 1925 il diciassettenne Vincent progett&ograve; la sua prima moto. Si era convinto che molto si potesse fare per migliorare soprattutto telai e sospensioni e in questa direzione, dopo essersi iscritto a un corso di ingegneria meccanica all&rsquo;universit&agrave; di Cambridge, orient&ograve; i suoi sforzi che culminarono, nel 1928, nel brevetto di una sospensione posteriore di tipo cantilever. Ventenne, alla soglia della laurea lasci&ograve; l&rsquo;universit&agrave; per realizzare il sogno di diventare costruttore di motociclette. In questo fu aiutato dal padre, che non si oppose all&rsquo;interruzione degli studi e che finanzi&ograve; il primo progetto del figlio, una vicenda che richiama alla mente la nascita della Moto Guzzi, con il finanziamento concesso dal padre di Giorgio Parodi per la nascita del prototipo &ldquo;GP&rdquo; del 1920. Si chiam&ograve; &ldquo;Vincent Special&rdquo; la moto d&rsquo;esordio di Philip Vincent come progettista e imprenditore. Era una 350 con motore prodotto dalla svizzera MAG e presentava tutte le caratteristiche di ciclistica da lui ideate. Costruita in un&rsquo;officina vicino a casa, fu accolta con successo dagli appassionati della zona e dalla stampa specializzata a cui fu presentata. &nbsp; L'evoluzione della Vincent  A questo punto si fece avanti un amico di famiglia, Frank Walker, ingegnere appassionato di moto, che propose a Philip di entrare in societ&agrave; con lui per fondare insieme l&rsquo;embrione di un&rsquo;industria motociclistica. I due si accordarono e per non partire da zero in quello stesso 1928 rilevarono per 450 sterline la HRD Motors fondata da Howard Raymond Davies, oberata dai problemi economici. Fu cos&igrave; che sul serbatoio delle prime moto, costruite in un capannone di Stevenage, comparve il marchio Vincent-HRD. I primi modelli prodotti dalla nuova marca erano motorizzati Jap o Rudge-Phyton e, naturalmente, su ciclistica originale Vincent. Nel 1931 in azienda entr&ograve; un tecnico australiano di grande talento, Phil Irving, che aveva lavorato alla Velocette. Tre anni dopo, la Casa di Stevenage partecip&ograve; al Tourist Trophy con un esito disastroso: tutte e tre le moto ufficialmente iscritte dovettero ritirarsi per la rottura del propulsore. Per Vincent e per Irving questo insuccesso fu la spinta decisiva ad abbandonare i motori altrui per ricorrere a propri progetti. Il 1934 fu dunque l&rsquo;anno del grande passo in avanti: il primo modello a compiersi fu il Meteor, un monocilindrico di 500 cm&sup3; a valvole in testa da 25 CV a 5300 giri con una versione pi&ugrave; spinta, denominata Comet, da 28 CV, la cui velocit&agrave; massima era di 145 km/h. Philip Vincent e Phil Irving, visto il successo nel particolare mercato delle moto sportive, decisero di andare oltre e nel 1936 fecero debuttare il modello &ldquo;Rapide&rdquo;, bicilindrico di 998 cm&sup3; da 45 CV e 175 km/h di velocit&agrave;. Una leggenda racconta che Irving avesse sul suo tavolo due disegni tecnici del monocilindrico, che per caso si sovrapposero e fecero scattare nella testa dell&rsquo;ingegnere la molla del progetto&hellip; Certamente il Vincent-HRD bicilindrico era l&rsquo;esatto raddoppio del &ldquo;mono&rdquo;, non soltanto per la cilindrata, ma anche per l&rsquo;angolo incluso di 47,5&deg; fra i cilindri, visto che il single era inclinato in avanti di 23,75&deg;. Allo scoppio della guerra, la Vincent-HRD sospese la produzione motociclistica per fornire all&rsquo;esercito munizioni, all&rsquo;aeronautica componenti per il caccia multiruolo De Havilland Mosquito, e alla marina motori per barche e pompe portatili. A pace conclusa ritorn&ograve; immediatamente alle moto, anche perch&eacute; Phil Irving, che nel 1937 aveva lasciato la Vincent per la Velocette, nel 1943 riprese il ruolo di responsabile tecnico a Stevenage. Tuttavia vennero tentate anche strade diverse, mettendo in produzione motozappe e falciatrici, motori stazionari industriali, scooter acquatici, motori ausiliari per biciclette e motocicli leggeri per assemblatori. Per le moto gli Stati Uniti divennero per la Vincent il mercato pi&ugrave; ricettivo e la Casa inglese, per evitare che le tre lettere &ldquo;HRD&rdquo; in aggiunta al suo marchio creassero confusione con le &ldquo;HD&rdquo; della Harley-Davidson, nel 1949 le elimin&ograve;. Gi&agrave; prima della fine della guerra venne ridisegnata la Rapide sia nel motore che nella ciclistica: in particolare ebbe un telaio a diamante con motore come elemento stressato, nuove sospensioni, e freni a quattro ganasce su entrambe le ruote, inoltre cambi&ograve; l&rsquo;angolo incluso fra i cilindri, passando a 50&deg; e vennero adottati per la prima volta due carburatori. Venne poi presentata la Black Shadow, bicilindrica da 55 CV capace di raggiungere la fenomenale velocit&agrave; di 200 km/h: ci&ograve; le permise di aggiudicarsi il titolo di moto stradale pi&ugrave; veloce del Mondo. Come se non bastasse, alla Black Shadow fu affiancata una versione da corsa chiamata Black Lightning potenziata a 70 CV e alleggerita da 207 a 172 kg: divenne il sogno di tutti i motociclisti europei, ma il costo di 1500 sterline ne limit&ograve; drasticamente la diffusione, e tra 1949 e 1952 ne furono costruite appena una trentina. In catalogo rientrarono sia la Meteor che la Comet 500 con il motore monocilindrico che ebbe anche un modello &ldquo;racing&rdquo; battezzato Grey Flash.  &nbsp; Vincent, il declino  Nei primissimi anni Cinquanta le vendite di moto conobbero in Inghilterra &ndash; ma anche in tutt&rsquo;Europa e in America &ndash; un progressivo e inarrestabile calo. La Vincent entr&ograve; in crisi, cerc&ograve; di porre rimedio presentando altri modelli derivati da quelli gi&agrave; in catalogo, tra cui la Black Prince, una Gran Turismo completamente carenata, ma non ottenne il risultato sperato. Nel 1954 addirittura produsse su licenza le motoleggere NSU ma quando, un anno dopo, la Casa tedesca intervenne direttamente sul mercato britannico, la fabbrica di Stevenage chiuse i battenti. Philip Vincent negli anni seguenti forn&igrave; consulenze e collabor&ograve; come giornalista freelance con le principali riviste specializzate scrivendo articoli a carattere tecnico. La sua vita si concluse all&rsquo;et&agrave; di 71 anni il 27 marzo 1979. Spiccando il volo, su due ruote | Polvere di Stelle       

La storia del costruttore britannico, che realizz&ograve; moto sportive di grande pregio&nbsp;

Vincent, rivale della Rolls-Royce | Polvere di Stelle

        Ecco una panoramica su alcuni marchi motociclistici che hanno avuto una storia in comune fra il volo e le due ruote a motore. Sono davvero tantissimi ed eviter&ograve; di includere in questa rassegna i pi&ugrave; noti: Piaggio, Aermacchi, Caproni, BMW, Kawasaki e Honda. Guenda Glubb, la Regina di Brooklands | Polvere di Stelle Martinsyde  Il nome che inaugura questa puntata &egrave; Martinsyde, industria aeronautica fondata a Woking, alla periferia sud-ovest di Londra, nel 1908. Il suo primo aereo, un monoplano, quell&rsquo;anno riusc&igrave; a decollare, ma poco dopo fu distrutto da una tempesta. In seguito pass&ograve; ai biplani e con questi raggiunse una buona fama, in particolare con i modelli militari &ldquo;Elephant&rdquo; G100 e G102, pesanti e poco manovrabili, ma rivelatisi molto efficienti come bombardieri e ricognitori. Durante la Prima Guerra mondiale, la Martinsyde divenne il terzo produttore di aeroplani del Regno Unito, ma non sfugg&igrave;, al termine del conflitto, alla necessit&agrave; di riconvertirsi in industria &ldquo;civile&rdquo;. Aveva capannoni a Brooklands, ossia in quella pista che dal 1907 era il tempio della Velocit&agrave; per automobili e motociclette, e questo influenz&ograve; la sua decisione di rivolgersi al mercato motociclistico. Per iniziare al pi&ugrave; presto l&rsquo;attivit&agrave; in questo nuovo campo, la Martinsyde acquist&ograve; i diritti di alcuni progetti del tecnico Howard Newman, in particolare un motore monocilindrico di 350 cm&sup3; e un bicilindrico a V longitudinale di 680 cm&sup3;. Quest&rsquo;ultimo aveva la caratteristica unica del condotto di scarico collocato sopra quello di aspirazione allo scopo di agevolare il funzionamento del propulsore nelle stagioni fredde. La 680, cui fece seguito una 500 di analoghe caratteristiche, era una delle moto pi&ugrave; belle del panorama britannico: la dotazione ciclistica era di alto livello e le prestazioni pi&ugrave; che soddisfacenti, tuttavia non riusc&igrave; mai a sfondare sul mercato. Nel 1922 un violento incendio distrusse la fabbrica di Woking e la Martinsyde cess&ograve; l&rsquo;attivit&agrave; vendendo le licenze di produzione dei suoi motori alla marca inglese BAT. La Douglas  Fondata come industria motociclistica nel 1907, la Douglas di Bristol esord&igrave; con una 350 il cui motore si distingueva da ogni altro per la disposizione dei due cilindri, contrapposti lungo l&rsquo;asse longitudinale della moto. Quel boxer con un cilindro steso in avanti e l&rsquo;altro rovesciato all&rsquo;indietro a guardare la ruota posteriore era decisamente originale e funzionava molto bene, tanto che i motociclisti inglesi, dopo un&rsquo;iniziale diffidenza, gli tributarono un generoso successo commerciale. A favorirlo furono anche gli ottimi risultati in campo agonistico, come l&rsquo;affermazione al Tourist Trophy classe 350 nel 1912, quando le Douglas conquistarono il primo, il secondo, il quarto e l&rsquo;ottavo posto in classifica, stabilendo anche il giro pi&ugrave; veloce. Le bicilindriche di Kingswood furono inoltre protagoniste della Sei Giorni Internazionale nel 1911 e nel 1914, aggiudicandosi l&rsquo;ambito premio a squadre. Nel 1913 fecero la loro comparsa sul mercato anche le automobili Douglas, spinte da un 1100 bicilindrico raffreddato ad aria da 8 HP. Ne furono prodotti due modelli che incontrarono un buon gradimento da parte del pubblico, ma la loro costruzione fu presto interrotta a causa dello scoppio della Prima Guerra mondiale. Durante il periodo bellico, dalle linee di montaggio uscirono circa 70.000 motociclette, inizialmente del classico modello di 350 cm&sup3; da 2,75 HP, presto affiancato da una versione maggiorata a 600 cm&sup3;. Al termine del conflitto, la Casa inglese, ormai una grande industria motociclistica, oper&ograve; senza traumi la sua riconversione &ldquo;civile&rdquo; e present&ograve; sul mercato nuovi modelli che confermarono ed esaltarono le qualit&agrave; del bicilindrico sia come moto stradale che da competizione. Nel 1922 la Douglas si impegn&ograve; in una nuova &ldquo;avventura&rdquo;, la costruzione di motori aeronautici derivati strettamente da quelli motociclistici. Anche questa iniziativa ebbe successo: gi&agrave; l&rsquo;anno seguente ben sei costruttori di aeroplani utilizzarono i suoi propulsori. Tra questi, nomi che sarebbero diventati famosi come De Havilland, Hurricane e Handley-Page. I bicilindrici boxer con cilindrate da 500 a 750 cm&sup3; si rivelarono adattissimi alla propulsione aerea limitatamente a velivoli leggeri, ma di l&igrave; a poco il progresso pretese potenze pi&ugrave; elevate e anche il settore aeronautico della Douglas, dopo un&rsquo;iniziale crisi, dovette adeguarsi. Nel 1935 la Douglas venne rilevata dalla BAC (British Aircraft Company). Il piano industriale della nuova propriet&agrave; prevedeva un accordo di costruzione su licenza dei potenti motori aeronautici Hispano Suiza, ma la mancata autorizzazione governativa lo fece fallire. Cos&igrave;, alla vigilia della Seconda Guerra mondiale, la Douglas si trov&ograve; non soltanto in grave crisi gestionale, ma anche impedita a riprendere una normale produzione motociclistica, visto che la BAC nel frattempo aveva venduto parte delle attrezzature della fabbrica. Esclusa dunque dalle forniture di moto militari, si dedic&ograve; allora alla produzione di componenti per l&rsquo;aviazione e soprattutto di motori stazionari per varie applicazioni, soprattutto generatori elettrici, che naturalmente riproponevano il boxer in varie configurazioni e cilindrata fino a 1000 cm&sup3;. Dal motore fisso nacque poi la prima nuova (cio&egrave; non derivata da modelli militari) moto inglese del dopoguerra, una 350 che entr&ograve; in produzione nel 1947 con la sigla T35 Mark-1, un modello che segn&ograve; l&rsquo;abbandono del bicilindrico contrapposto longitudinale in favore del boxer trasversale con cui furono equipaggiati i modelli successivi fino alla Dragonfly, ultima moto prodotta dalla Douglas tra 1955 e 1957. Harry Hawker, australiano, si trasfer&igrave; in Inghilterra dove venne assunto dall&rsquo;industria aeronautica Sopwith con il ruolo di tecnico e di pilota-collaudatore. Prima della Grande Guerra stabil&igrave; numerosi record, di velocit&agrave;, di altezza e di durata. Nel 1919 tent&ograve; di trasvolare l&rsquo;Atlantico, ma la rottura del radiatore lo costrinse ad ammarare. Dal 1920 all&rsquo;attivit&agrave; aviatoria affianc&ograve; quella motociclistica. Divenne costruttore di moto di media e grossa cilindrata e prese parte anche a gare. Eccentrico, arrivava in RollsRoyce e saliva in sella soltanto all&rsquo;ultimo, prima del via. Per&igrave; nel 1921 in un incidente di volo.  &nbsp; Henderson  La prima Henderson prodotta nel 1911 dallo stabilimento di Detroit, nello stato americano del Michigan, era una 934 cm&sup3; a quattro cilindri in linea longitudinale della potenza di 7 CV. Sapientemente progettata e realizzata da William Henderson, la moto ottenne subito un buon successo, che fu ampliato negli anni successivi non soltanto da un&rsquo;evoluzione costante del modello, ma anche da numerose ed eclatanti imprese sportive. Come il primo giro del Mondo in moto, compiuto da Carl Stevens Clancy con una &ldquo;four&rdquo; del 1912, il nuovo record coast-to-coast a opera di Allan Bedell nel 1917 e tante altre affermazioni in prove di velocit&agrave; e resistenza. Acquistata dalla forte concorrente americana Excelsior di Ignaz Schwinn nel 1917, la Henderson nei primi anni Venti entr&ograve; anche nel settore aeronautico fornendo i suoi motori motociclistici a diversi costruttori di aeroplani leggeri che avevano avuto modo di constatarne la superiorit&agrave; rispetto ad altre applicazioni basate su propulsori bicilindrici da moto Indian e Harley-Davidson. Gli ultraleggeri motorizzati Henderson diventarono i pi&ugrave; ambiti dopo essersi imposti in importanti competizioni del settore e &ldquo;laurearono&rdquo; migliaia di giovani piloti americani. Nel 1930 il motore a quattro cilindri Henderson pi&ugrave; evoluto in versione aeronautica aveva una potenza di 27 CV a 3000 giri, consentiva una velocit&agrave; massima di 97 miglia orarie (circa 160 km/h) e consumava un gallone e mezzo (circa sei litri) di benzina all&rsquo;ora. Ma il 1930 port&ograve; anche il crollo della Borsa di Wall Street e la &ldquo;grande depressione&rdquo;. A differenza della maggior parte delle marche concorrenti, la ExcelsiorHenderson non ne soffr&igrave;, ma Ignaz Schwinn non volle correre rischi e, resosi conto che l&rsquo;automobile stava conquistando il mercato della motorizzazione privata, nel 1931 decret&ograve; la fine della produzione motociclistica, mantenendo in vita soltanto il reparto ciclistico.  Continua Moto Guzzi V35, la progenitrice | Polvere di Stelle       

Alcune aziende protagoniste tra le moto e nell&rsquo;aviazione: come Martinsyde, Henderson e l&rsquo;eclettica Douglas

Dal Tourist Trophy alle nuvole | Polvere di Stelle

        Sono molti gli appassionati che almeno una volta, magari in giovent&ugrave;, quando si pasticciava con i monocilindrici di piccola cilindrata, hanno pensato di montare parti di un motore in un altro. Insomma, di effettuare un trapianto, che vedeva in genere protagonisti teste e cilindri. Storie di moto poco fortunate | Officina Trapianti sui motori a due tempi  La cosa poteva non presentare particolari difficolt&agrave; quando si trattava di motori a due tempi. Negli anni Settanta lo hanno fatto diversi appassionati per i loro cinquantini da competizione impiegando il cilindro Kreidler, che forniva eccellenti prestazioni ed era reperibile come ricambio. Pure i cilindri Rotax sono stati utilizzati con ottimi risultati da alcuni tecnici nostrani per i loro 125 nel corso degli anni Novanta. Dotati di cinque travasi, avevano un alesaggio di 54 mm ed erano acquistabili senza difficolt&agrave;. C&rsquo;&egrave; stato anche chi ha per&ograve; montato un cilindro Yamaha su un basamento di propria realizzazione. &Egrave; qui interessante segnalare che anni dopo, quando le Moto3 hanno sostituito le 125, qualcuno ha fatto il contrario, &ldquo;trapiantando&rdquo; un gruppo testa/cilindro fatto da lui su un basamento Honda. Dopo il termine della seconda guerra mondiale e fino alla met&agrave; degli anni Cinquanta, hanno avuto una buona diffusione le teste e i gruppi termici completi realizzati dalla Mototecnica Velox di Torino, per mezzo dei quali si potevano trasformare delle tranquille monocilindriche a valvole laterali (si trattava in genere di modelli ex-militari, assai numerosi e acquistabili a costo molto contenuto) in ben pi&ugrave; brillanti aste e bilancieri. Si trattava di parti ben progettate e costruite, fuse in lega di alluminio e con canna del cilindro riportata in ghisa e c&rsquo;erano anche delle versioni per competizione o trasformazione Supersport (ad esempio per le Benelli monoalbero veniva offerta una versione bialbero). Valvole a fungo, mostri di efficienza | Officina I trapianti Morini e Cagiva  L&rsquo;idea di installare sul cilindro di un certo modello della sua gamma la testa di un&rsquo;altra moto, sempre di propria produzione, &egrave; venuta anche a una casa come la Morini, che all&rsquo;inizio degli anni Sessanta ha trapiantato sul motore Corsaro la testa di un Settebello, dotata di valvole inclinate (e non parallele) e di dimensioni maggiori. Pare che le moto interessate da questa trasformazione siano state un paio, rimaste entrambe allo stadio di prototipo. Negli anni Ottanta la Ducati &egrave; entrata a far parte del gruppo Cagiva e alcune moto prodotte sul lago di Varese sono state dotate di motori bolognesi. Molti ricordano le Elefant, che hanno avuto una importante diffusione tra gli appassionati e sono state anche grandi protagoniste delle maratone africane. Poco dopo l&rsquo;inizio della collaborazione tra le due Case, alla Cagiva hanno deciso di provare una testa desmodromica monoalbero Ducati a due valvole installandola su un monocilindrico 350 della serie T4, che di valvole ne aveva quattro. Si trattava di poco pi&ugrave; di un esperimento (del resto, chi non ne ha fatti &ldquo;cos&igrave; per provare&rdquo;?). Non male ma non ha avuto seguito.  Trapianti Ducati-BMW  Gli anni dei Supermono sono stati il periodo d&rsquo;oro dei trapianti ma spesso i gruppi termici che venivano impiegati al posto degli originali (in genere erano interessati da questa modifica i motori Yamaha) erano realizzati ex-novo, dal pieno o, meno frequentemente, di fusione. Un&rsquo;interessante proposta &egrave; stata avanzata dal tecnico Mattioli, che lavorava alla Ducati e che ha trapiantato su di un basamento (completo ovviamente degli organi meccanici!) un cilindro ottenuto dal pieno e la testa di un 851. Questo motore &egrave; stato provato al banco e ha fornito risultati pi&ugrave; che buoni. Due teste Ducati ma in questo caso a due valvole e con distribuzione desmo monoalbero, sono state montate da un abile e intraprendente sidecarista su di un bicilindrico boxer BMW. Il comando degli alberi a camme &egrave; rimasto a cinghia dentata. La trasformazione non deve essere stata semplice. Le teste sono state disposte con l&rsquo;aspirazione verso l&rsquo;alto e lo scarico verso il basso e per comandare le cinghie dentate &egrave; stato impiegato un albero ausiliario collocato nella parte superiore del basamento.  Passa alla prossima pagina Trapianti inglesi  L&rsquo;Inghilterra &egrave; una terra nella quale in campo motociclistico i trapianti non sono mai mancati. Occorre per&ograve; dire che nella maggior parte dei casi si &egrave; trattato di motori completi installati in ciclistiche di altri modelli di differente marca. Nomi come Norvin (telaio Norton e motore Vincent) e Triton (telaio Norton e motore Triumph) sono ormai da tempo entrati nella leggenda. In effetti il telaio Featherbed ha davvero mostrato la strada ed &egrave; stato a lungo un riferimento fondamentale per tutti. Nel 1971 una sua evoluzione, di disegno pi&ugrave; avanzato, &egrave; stata realizzata da Rob North; ha equipaggiato le BSA/ Triumph tricilindriche che hanno corso a Daytona e in altre gare per le 750 e ha influenzato tanto la Yamaha quanto la Kawasaki, che hanno equipaggiato diverse loro moto da competizione di telai aventi una struttura analoga. I fratelli Rickman hanno iniziato l&rsquo;attivit&agrave; in campo Crossistico e in seguito l&rsquo;hanno estesa al settore stradale. Le loro moto, dotate di motori Triumph bicilindrici o Matchless e BSA monocilindrici, sono passate alla storia come Metisse. La loro piccola azienda (&egrave; arrivata a occupare al massimo una trentina di persone) oltre alle moto complete, assai apprezzate negli USA oltre che in patria, vendeva anche kit di ciclistica, nei quali l&rsquo;acquirente poteva installare il motore che preferiva. Colin Seeley era un apprezzato telaista che svolgeva la sua attivit&agrave; principalmente nel campo delle moto da competizione. &Egrave; importante anche non dimenticare le teste Weslake, in alcuni casi a quattro valvole, che potevano essere installate direttamente su motori di serie come i BSA monocilindrici. Grande specialista di fluidodinamica, Harry Weslake ha collaborato a lungo con importanti costruttori di motori da competizione, tanto per moto quanto per auto. Non per nulla il motore a 12 cilindri di 3000 cm&sup3; della Eagle di Formula 1, disegnato da Aubrey Woods e apparso alla fine del 1966, era noto come Gurney-Weslake 58. Telai, l'alluminio domina la scena | Officina       

Andiamo alla scoperta di queste operazioni nelle quali, in genere, ingegneri e appassionati utilizzano spesso dei monocilindrici

Storie di trapianti motoristici, più o meno riusciti | Officina

        Polvere di Stelle si &egrave; occupata di Richard K&uuml;chen, un tecnico tedesco poco noto, ma tra i pi&ugrave; prolifici non soltanto nel settore motociclistico. In questa puntata ne completiamo la biografia. Polvere di Stelle: 120 anni di pubbiclit&agrave; motociclistica Dalla Z&uuml;ndapp alla DKW  Se i motori a quattro tempi bicilindrici e quattro cilindri boxer, realizzati nei primi anni Trenta da K&uuml;chen per la Z&uuml;ndapp, permisero alla Casa di Norimberga di espandersi sia sul mercato interno che all&rsquo;estero, l&rsquo;opposto accadde con i suoi motori a due tempi, concepiti dallo stesso K&uuml;chen, che con la distribuzione a tre travasi, innovativa e con migliore rendimento rispetto a quella simile e brevettata a due travasi della DKW dominatrice del mercato, diedero origine a una pesante controversia legale con la marca di Zschopau. La Suprema Corte di Lipsia sentenzi&ograve; a favore della DKW, e la Z&uuml;ndapp dovette sospendere la produzione e pagare un milione di marchi di risarcimento alla Casa concorrente. Tuttavia K&uuml;chen non si arrese: dot&ograve; i suoi motori a due tempi di quattro travasi e questa volta la causa, nuovamente intentata dalla DKW, si risolse a favore della Z&uuml;ndapp. Nel 1934 il progettista ebbe per&ograve; un pesante diverbio con il direttore di produzione, Erich Zipperich, e lasci&ograve; la Z&uuml;ndapp. Fu accolto a braccia aperte proprio dalla grande avversaria, la DKW, per la quale nel volgere di poco tempo K&uuml;chen realizz&ograve; la RT 125, il capolavoro a due tempi copiato dai pi&ugrave; importanti produttori mondiali nell&rsquo;immediato secondo dopoguerra. Per la Casa di Zschopau progett&ograve; anche la NZ 350 e la SS 250, una moto da corsa in vendita pure ai privati caratterizzata da un motore a due tempi a cilindro sdoppiato che per anni risult&ograve; imbattibile nelle corse nazionali e anche in molte gare internazionali. La Victoria, poi di nuovo in Z&uuml;ndapp  Ingegnere validissimo ma dal carattere evidentemente difficile, con cui i colleghi faticavano a confrontarsi, K&uuml;chen segu&igrave; un clich&eacute; ormai consolidato e dopo appena due anni di proficua permanenza alla DKW cambi&ograve; ancora bandiera: torn&ograve; a Norimberga, legandosi questa volta alla Casa Victoria. Dove in coppia con il progettista della Horex, Hermann Reeb, cre&ograve; il motore Columbus 350, un monocilindrico a valvole in testa della potenza di 20 CV che dal 1938 fu montato sul modello Victoria KR 35 S, poi, dal 1950, anche sulla Horex Regina. In quel biennio appose la sua firma, oltre che sul Columbus, su una gamma di motoleggere di 125, 150, 200 e 250 cm&sup3;, tutte con motori a due tempi. Sul finire del 1938, per&ograve;, ecco un nuovo trasferimento. Salut&ograve; la Victoria e fece ritorno alla Z&uuml;ndapp, dove ferveva l&rsquo;attivit&agrave; in vista di grosse commissioni da parte del dipartimento della guerra. Basandosi inizialmente sul modello KS 600 bicilindrico boxer trasversale con trasmissione finale ad albero, ne realizz&ograve; la versione militare, sostituendola poi con la KS 750 sidecar con trazione anche sulla ruota del carrozzino (munita di differenziale) secondo un brevetto rilasciato a K&uuml;chen. Trovatasi in concorrenza con il sidecar BMW R75 di pari cilindrata e caratteristiche, la KS 750 ottenne il favore degli esaminatori della Wehrmacht che ne ordinarono la produzione. La BMW, sconfitta, non accett&ograve; di produrre liberamente la KS 750 come le aveva offerto la Z&uuml;ndapp, per&ograve; alla fine anche la R75 fu omologata per la produzione militare con il patto che i componenti principali delle due concorrenti fossero intercambiabili. Prima dello scoppio della guerra, K&uuml;chen aveva progettato e realizzato il prototipo di una 125 con linea e caratteristiche estremamente moderne. Il motore era un due tempi a cilindro sdoppiato montato su un elegante telaio in lamiera stampata e il modello aveva tutte le premesse per diventare un best seller in tempo di pace, ma l&rsquo;impegno del suo progettista e della Z&uuml;ndapp fu assorbito dalla produzione della KS 750, della quale vennero costruiti 18.000 esemplari. Fino al 1944, K&uuml;chen non si limit&ograve; per&ograve; a lavorare sulla KS 750, ma nella sua fabbrica di Norimberga produsse anche componenti per veicoli terrestri e aeronautici, naturalmente per impieghi bellici, inoltre fu occupato nella progettazione del &ldquo;Kleinpanzer&rdquo;&nbsp; Goliath, un mini-carro armato progettato per autodistruggersi esplodendo contro un obiettivo. Era quindi telecomandato via cavo, inizialmente con un motore elettrico, poi con il motore Z&uuml;ndapp K500, infine con un nuovo propulsore bicilindrico a due tempi di 700 cm&sup3; raffreddato ad aria. Nel 1946 la sconfitta militare della Germania e l&rsquo;azzeramento pressoch&eacute; totale del suo patrimonio industriale non frenarono K&uuml;chen, che acquist&ograve; a Ingolstadt, in Alta Baviera, un capannone diroccato e lo restaur&ograve;, trasformandolo in una fabbrica di alberi a gomito per motori automobilistici DKW e contemporaneamente di presse per patate e componenti meccanici di precisione. L&rsquo;iniziativa ebbe successo, tanto che gi&agrave; un anno dopo in quel piccolo stabilimento lavoravano 70 dipendenti. Dal 1950 riprese la progettazione di motori soprattutto motociclistici. Nei primi anni Trenta aveva concepito un bicilindrico a V trasversale a valvole in testa per conto della Ardie, tuttavia mai entrato in produzione. Riprese quel disegno sul tecnigrafo nel dopoguerra e con poche modifiche lo propose alla Victoria, che invece ne fece il modello top della sua gamma con il nome di Victoria V35 (350 cm&sup3;) Bergmeister. Un altro bicilindrico, questa volta boxer trasversale, gli venne commissionato dalla Hoffmann, che produceva su licenza la Vespa in Germania, e and&ograve; a equipaggiare il riuscito modello Gouverneur 250. K&uuml;chen progett&ograve; poi per la Tornax una 125 a quattro tempi da corsa con 15 CV, e per la Opti (un&rsquo;azienda produttrice di cerniere lampo) un motore 250 bicilindrico parallelo monoalbero raffreddato ad aria che venne adottato dalla Tornax, dalla Rabeneick e dalla UT, che a sua volta lo forn&igrave;, con un suo telaio, alla Motosacoche. Nonostante la vasta accoglienza, tale motore registr&ograve; il maggiore insuccesso fra quelli disegnati da K&uuml;chen, avendo subito dimostrato una notevole fragilit&agrave;. Una carriera unica  Eppure, la fama dell&rsquo;ingegnere non sub&igrave; conseguenze: la BMW gli affid&ograve; la progettazione di un quattro cilindri boxer diesel e la DKW richiese la sua collaborazione nella realizzazione dell&rsquo;Hobby, forse lo scooter originale tedesco pi&ugrave; apprezzato; studi&ograve; anche un bicilindrico a due tempi con pistoni contrapposti e realizz&ograve; pure il motore V8 bialbero in alluminio per la monoposto di Formula 2 AFM di Hans Stuck. La sua carriera di progettista fu pressoch&eacute; unica per volume e variet&agrave;. Gli venne per&ograve; sempre imputata la propensione a sottovalutare alcuni aspetti costruttivi, come l&rsquo;inadeguatezza dei materiali rispetto alla modernit&agrave; delle sue idee. Un modo di dire a lui riferito era &ldquo;K&uuml;chens Konstruktionen kennen keine komplette K&uuml;hlung&rdquo; (&ldquo;I progetti di K&uuml;chen non si raffreddano mai&rdquo;). Continu&ograve; a lavorare nella sua azienda fino al 1964, quando la cedette al Gruppo Schaeffler, poi prosegu&igrave; come consulente di varie aziende, fra cui la Hammerstein, per la quale realizz&ograve; parafulmini.  Richard K&uuml;chen mor&igrave; a Ingolstadt il 5 ottobre 1974.       

L&rsquo;irrequieto K&uuml;chen, autore di grandi invenzioni, offr&igrave; la propria qualit&agrave; a quasi tutte le principali Case tedesche

Polvere di Stelle: la storia di Küchen, allergico ai legami

        Nel corso delle mie ricerche, saltuariamente mi imbatto in argomenti interessanti da trattare su questa rubrica. L&rsquo;ultimo che mi &egrave; capitato sott&rsquo;occhio riguarda un avveniristico cambio ad azionamento elettromagnetico costruito nel 1954 da una Casa motociclistica tedesca, la Victoria Werke di Norimberga, la cui storia merita certamente di essere raccontata su Polvere di Stelle. Dalle bici alle moto  Nei primi anni Sessanta del secolo XIX la bicicletta, o meglio, il biciclo si era diffuso a macchia d&rsquo;olio dopo che il francese Michaux aveva per primo corredato di pedali sulla ruota anteriore una &ldquo;Michaudine&rdquo; (bicicletta con lo sterzo, ma con trazione ancora a spinta con i piedi a terra). Il suo fenomenale successo presso tutti i ceti sociali, alimentato anche dalla straordinaria pubblicit&agrave; derivante dalle numerose sfide sportive subito organizzate ovunque, fece s&igrave; che tantissimi artigiani e industriali orientassero i loro investimenti su questo nuovo settore. In Francia e Inghilterra, patrie dei pi&ugrave; geniali inventori che avevano trasformato un inefficiente veicolo nato per gioco alla fine del 1700 in un rivoluzionario mezzo di trasporto accessibile a tutti, sorsero le principali industrie ciclistiche, che in breve divennero il punto di riferimento per imprenditori di ogni Paese d&rsquo;Europa. Max Ottenstein, nato il 23 febbraio 1860 a Gunzenhausen, un grosso paese 45 km a sud-ovest di Norimberga, era un appassionato ciclista e all&rsquo;et&agrave; di 20 anni era un animatore del club del velocipede del capoluogo, in cui si promuoveva l&rsquo;uso del penny farthing, come veniva chiamato dagli inglesi il biciclo con la ruota anteriore altissima e quella posteriore microscopica. Dotato di spirito d&rsquo;iniziativa e gi&agrave; esperto di scambi commerciali, Ottenstein nel 1886, al ritorno da un viaggio in Inghilterra dove senz&rsquo;altro aveva visitato una fabbrica di biciclette, si associ&ograve; con Max Frankenburger, un uomo d&rsquo;affari coetaneo e con lui fond&ograve; un&rsquo;industria ciclistica la cui attivit&agrave; venne avviata in un capannone in affitto a Gleishammer, un sobborgo di Norimberga, con una forza lavoro di venti operai. I due soci, ungimiranti, nei primi anni costruirono penny farthings, e si fecero anche promotori di un velodromo in citt&agrave; in cui si svolgevano gare e si teneva una scuola per i principianti. Ebbero successo e dovettero trasferirsi in una fabbrica pi&ugrave; grande, con 150 operai e pi&ugrave; di 40 macchine utensili. Dal 1892 convertirono la produzione dai bicicli a ruota alta alle &ldquo;biciclette di sicurezza&rdquo; con entrambe le ruote di pari diametro, e le vendite esplosero letteralmente, tanto che nel 1895 la societ&agrave; divenne &ldquo;Victoria-Fahrradwerke AG&rdquo; con un capitale sociale di 1,25 milioni di marchi. Quattro anni dopo, quando il mercato della bicicletta in Germania cominci&ograve; a mostrare segnali di saturazione, la societ&agrave; si rinomin&ograve; ancora in Victoria Werke e nel 1900 e 1901 present&ograve; i prototipi di un&rsquo;automobile e di una motocicletta, pur mantenendo come attivit&agrave; primaria la produzione ciclistica. Auto e moto stavano comunque conquistando spazi commerciali in diversi Paesi, cos&igrave; anche la Victoria decise di inserirsi in questi promettenti settori industriali e tra il 1903 e 1904 nel suo catalogo apparvero le prime due e quattro ruote motorizzate. Nel frattempo (gennaio 1901) Max Frankenburger aveva lasciato la societ&agrave; per trasferirsi a Monaco di Baviera e dedicarsi a una sua grande passione: la storia dell&rsquo;oreficeria, della quale sarebbe diventato uno dei massimi esperti. Nel primo periodo le motociclette Victoria erano delle biciclette rinforzate con motori non prodotti in proprio, ma acquistati da marchi gi&agrave; famosi, come Fafnir, Zedel e Minerva. La guerra, la ripresa  N&eacute; le moto, n&eacute; le auto ottennero importanti risultati commerciali, per cui, al sopraggiungere della prima crisi di mercato, tra il 1908 e il 1912 la produzione di veicoli a motore venne sospesa. Riprese dopo la guerra, nel 1920, sotto la direzione tecnica di Rudolf Ottenstein, figlio di Max, il quale deliber&ograve; la realizzazione della Kraft Rad 1 (KR1), una bella motocicletta il cui motore di 500 cm&sup3; sarebbe passato alla storia essendo il primo prodotto dalla BMW, il famoso M2B15 a valvole laterali in configurazione boxer, montato con i due cilindri allineati all&rsquo;asse longitudinale della moto, cambio a due rapporti e trasmissione finale a catena. Nel 1922, quando la BMW, allora di propriet&agrave; dell&rsquo;italiano Camillo Castiglioni, lanci&ograve; la sua prima motocicletta, la R32, cessando la vendita dei propulsori di sua produzione, il progettista dell&rsquo;M2B15, Martin Stolle, lasci&ograve; la BMW per passare alla Sedlbauer con sede sempre a Monaco di Baviera. L&igrave; miglior&ograve; il suo bicilindrico dotandolo di valvole in testa e la Victoria lo adott&ograve; creando il modello KR2, cui fece seguito l&rsquo;anno dopo il KR3 con il motore di Stolle ulteriormente sviluppato e prodotto ancora dalla Sedlbauer, acquistata nel frattempo dall&rsquo;azienda di Ottenstein e trasferita quindi a Norimberga. Sul propulsore della KR3 per la prima volta venne stampato il marchio &ndash; una V semplice sormontata da una W &ndash; della Victoria Werke. Un anno pi&ugrave; tardi, Stolle lasci&ograve; anche la Casa di Norimberga per tornare a Monaco e fondare una fabbrica di automobili sportive. Fu sostituito dall&rsquo;ingegner Gustav Steinlein che sul bicilindrico della KR3 nel 1925 mont&ograve; per la prima volta in Germania un compressore centrifugo volumetrico, ottenendo un bolide da corsa altamente competitivo che si afferm&ograve; nelle corse in salita, nelle gare di Velocit&agrave; con il sidecar e ottenne nel 1926, a Friburgo, il record tedesco assoluto sul chilometro lanciato alla media di 165 km/h. Polvere di Stelle: l'avventura a due ruote di Eddy Ottoz &nbsp; L'ampliamento della gamma  Ormai inserita fra le principali marche motociclistiche germaniche, nel 1927 la Victoria ampli&ograve; la produzione inserendo in catalogo la KR6 con bicilindrico maggiorato a 600 cm&sup3; e la KR7 con lo stesso motore alimentato da due carburatori e potenza di 24 CV. A questi modelli, che rappresentavano il prodotto di punta, affianc&ograve; la KR20, una monocilindrica a valvole laterali di 200 cm&sup3; e la KR35 a valvole in testa di 350 cm&sup3;. Tre anni dopo, furono posti in vendita anche i modelli KR50 a valvole laterali e KR50S a valvole in testa, con motori prodotti dall&rsquo;inglese SturmeyArcher. Nel 1932 una Victoria 600 si aggiudic&ograve; il campionato europeo della montagna e il campionato tedesco dei sidecar. Sul fronte produttivo fecero invece la loro comparsa i modelli KR15 e KR20Z, monocilindrici a due tempi di 150 e 200 cm&sup3; con motori costruiti dalla tedesca Ilo di Pinneberg, alla periferia di Amburgo. Nel gennaio di quello stesso anno Max Ottenstein e la moglie Sofie Hellmuth lasciarono Norimberga per andare a vivere a Garmisch-Partenkirchen; la fabbrica rimase comunque in mano alla famiglia, con i figli Rudolf, direttore tecnico, e Franz, direttore generale. continua       

All&rsquo;inizio del &lsquo;900, Ottenstein trasform&ograve; l&rsquo;attivit&agrave; legata alle due ruote, passando dalle bici alle moto. Usufruendo anche dei primi motori prodotti dalla BMW

Polvere di Stelle: Victoria Werke, gloria bavarese

        Altra puntata della storia delle moto con pi&ugrave; di due cilindri costruite con l&rsquo;ambizione di vincere le corse e invece costrette a rinunciare alla potenzialmente gloriosa carriera agonistica. I progetti che presentiamo non sono stati sacrificati, come la maggior parte di quelli esaminati in precedenza, dai nuovi regolamenti tecnici entrati in vigore a fine Anni &lsquo;60, ma da radicali &ldquo;cambiamenti di rotta&rdquo; stabiliti dalla dirigenza delle Case dopo aver appoggiato, finanziato e sviluppato la nascita dei prototipi. Polvere di Stelle: l'evoluzione della componentistica Il "boxer" MV Agusta  Per cominciare, torniamo al 1974, un anno importantissimo per la MV Agusta perch&eacute; coincise con l&rsquo;addio di Giacomo Agostini, passato alla Yamaha, con cui fu campione del Mondo a fine stagione nella 350. Il conte Domenico Agusta era morto prematuramente nel 1971 e aveva lasciato al fratello Corrado la responsabilit&agrave; di un&rsquo;azienda motociclistica in grave difficolt&agrave; economica e di un reparto corse in piena efficienza, ma costosissimo e alla soglia di una crisi dovuta alla superiorit&agrave; che i motori giapponesi a due tempi stavano maturando nei confronti dei quattro tempi su cui la MV si era intestardita. Nel 1974 a Verghera venne assunto un nuovo direttore tecnico, l&rsquo;ingegner Giuseppe Bocchi, che si distinse operando sui quattro cilindri 350 e 500, impegnandosi anche nella progettazione di un motore inedito per la MV: un 500 quattro cilindri &ldquo;boxer&rdquo; per il quale, oltre alla tradizionale alimentazione a carburatori, si accinse a sperimentare anche l&rsquo;iniezione. Nel &ldquo;boxer&rdquo; MV vi erano una coppia di cilindri orizzontali affiancati frontemarcia e un&rsquo;altra coppia parimenti disposta, ma rivolta all&rsquo;indietro. In pratica, un V4 di 180&deg; montato in senso longitudinale per contenere l&rsquo;ingombro frontale e consentire la realizzazione di un telaio molto basso. Le caratteristiche specifiche di questo motore, che nella prima prova al banco rese 96 cavalli, non sono note. Lo sviluppo era programmato, venne realizzato anche un telaio a traliccio, alla Dell&rsquo;Orto vennero commissionati speciali carburatori, ma prima che il &ldquo;boxer&rdquo; &ndash; derivato come progetto dal motore V12 che l&rsquo;ingegner Bocchi aveva costruito per la Tecno di Formula 1 &ndash; potesse mostrare tutto il suo indubbio potenziale, la MV Agusta moto chiuse i battenti e alla fine del 1976 la stessa sorte tocc&ograve; al reparto corse. Fu lo stato italiano, divenuto nel frattempo proprietario della MV, a decidere la fine del comparto moto in base a due ragionamenti: a Cascina Costa si producevano anche elicotteri apprezzati sul mercato internazionale e in grado di produrre utili molto elevati. Inoltre lo Stato possedeva anche la Ducati, che in quel periodo stava lanciando una moto di particolare prestigio, una bicilindrica di grossa cilindrata per la quale si prospettava una buona accoglienza sul mercato. &nbsp; La Ducati "inglese"   Insomma, fra le due aziende motociclistiche in crisi di sua propriet&agrave;, Roma decise di salvarne una soltanto, la Ducati. E tra gli investimenti programmati a questo scopo negli anni precedenti c&rsquo;era stata anche la partecipazione al Mondiale di Velocit&agrave; nella 350, dove la MV in quel momento teneva ancora banco. Era il 1971 e l&rsquo;ingegner Fabio Taglioni era impegnatissimo a sviluppare la bicilindrica 750 a &ldquo;L&rdquo; di 90&deg; finalmente deliberata dalla dirigenza. Fu probabilmente questa la ragione che indusse chi in quel momento era a capo della Ducati per conto dell&rsquo;EFIM (Ente partecipazioni e Finanziamento Industrie Manifatturiere) a commissionare all&rsquo;estero il progetto di un prototipo di 350 cm&sup3; da competizione. Fu scelto (o si propose) lo studio inglese di ingegneria Ricardo, un centro tecnico noto fin dagli anni Venti, che present&ograve; un tre cilindri in linea trasversale con distribuzione bialbero a quattro valvole per cilindro comandata da cinghia dentata sul lato destro della bancata. La cilindrata effettiva era di 349,3 cm&sup3; data da un alesaggio di 60 mm e da una corsa di 41,2 mm. Il raffreddamento era a liquido e gli scarichi erano uno per ciascuna valvola, quindi sei; l&rsquo;alimentazione era a iniezione meccanica. La trasmissione usufruiva di frizione multidisco a secco e di cambio estraibile a sette rapporti. La Ricardo dichiar&ograve; allora che le prove al banco avevano dato 80 CV a 15.000 giri, ma i successivi test non soltanto non confermarono il risultato, ma rivelarono numerosi difetti d&rsquo;origine del progetto: fu necessario sostituire l&rsquo;iniezione meccanica con una batteria di carburatori e rifare manualmente alcuni importanti componenti che avevano denunciato difetti di fusione. Nell&rsquo;agosto del 1972 i rappresentanti di Ducati e Ricardo concordarono di interrompere la collaborazione. Nessuno si cur&ograve; pi&ugrave; di quel motore, tanto che rimase in Inghilterra per oltre 25 anni, finch&eacute; qualcuno non riusc&igrave; a portarlo a Bologna, dove ora &egrave; esposto al Museo Ducati. La Casa di Borgo Panigale non &egrave; stata l&rsquo;unica a commissionare a uno studio di ingegneria straniero la realizzazione di un bolide da corsa con cui correre nel Mondiale. &nbsp; La BMW MotoGP   La stessa cosa fece la BMW nei primi anni Duemila, quando la FIM deline&ograve; le regole tecniche della MotoGP, chiamata a sostituire la 500 nel ruolo di classe regina del Mondiale. La Casa tedesca si rivolse a uno studio con cui aveva gi&agrave; tenuto importanti rapporti di collaborazione tecnica: l&rsquo;Oral Engineering di Baggiovara, periferia sud di Modena, fondato e diretto dagli ingegneri Mauro Forghieri, famoso per i trascorsi di progettista &ndash; vincente &ndash; alla Ferrari, e Franco Antoniazzi, noto nell&rsquo;ambiente moto per le collaborazioni avute con Gilera e Aprilia. La BMW insistette per un motore di 990 cm&sup3; a tre cilindri in linea frontemarcia e la Oral si adegu&ograve; sebbene avesse caldeggiato un quattro cilindri. Venne realizzato il prototipo ma, dopo le prime prove al banco, da cui emerse una potenza di 230 cavalli alla ruota, la cilindrata massima ammessa dalla Federazione venne ridotta a 800 cm&sup3; in vista del 2007, e il lavoro dovette essere rifatto daccapo. Il secondo prototipo manteneva lo schema a tre cilindri in linea trasversale raffreddati a liquido, con distribuzione bialbero a 12 valvole ad azionamento pneumatico. La cilindrata di 798 cm&sup3; era data da 90 mm di alesaggio per 41,8 mm di corsa e l&rsquo;alimentazione era a iniezione elettronica. Si ottenne una potenza di 215 cavalli a 18.000 giri, controllata dai pi&ugrave; moderni sistemi di centraline e sensori elettronici. Il motore, dal peso di appena 51 kg, venne montato su un telaio di ultima generazione a doppio trave in alluminio e la moto, pesante complessivamente 135 kg, fu collaudata pi&ugrave; volte da Luca Cadalora. Ma nel frattempo a Monaco avevano cambiato obiettivi e strategie. Il piano MotoGP venne bloccato e venne invece avviata la partecipazione al mondiale Superbike, coerentemente al nuovo indirizzo produttivo del Marchio, nel quale la BMW aveva deciso di attribuire il ruolo di protagoniste alle supersportive di grossa cilindrata. Polvere di Stelle: il culto della Motom       

Un altro capitolo sulle moto plurifrazionate mai viste in gara: dalla MV con motore "boxer" bloccata dallo Stato alla Ducati &ldquo;inglese&rdquo; fino al prototipo tedesco

Polvere di Stelle: da MV Agusta a BMW MotoGP, i motori fermati al debutto

        Gi&agrave; prima della Seconda Guerra Mondiale, BMW era fortemente legata al Motorsport. Indimenticabile la vittoria di Schorsch Meier, al Senior Tourist Trophy del 1939, con una BMW sovralimentata. Nel 1976, la Casa di Monaco conobbe importanti successi sportivi negli USA: l&rsquo;AMA Superbike Championship fu vinto dal pilota inglese Reg Pridmore, in sella alla R 90 S. Speciale BMW: 50 anni di storie e prodotti BMW nel Racing  Nello stesso anno, Steve McLaughlin sal&igrave; sul gradino pi&ugrave; alto del podio nella Daytona 200. Sempre nel 1976, Helmut D&auml;hne e Hans Otto Butenuth festeggiarono il quinto posto nel Production TT; ottennero il migliore tempo con la loro R 90 S ma a causa di un regolamento che si applica a questa categoria, furono inseriti al quinto posto in classifica, dietro a due moto da 250 cm3 e due moto da 500 cm3. La R 90 S, che debutt&ograve; come prodotto di serie nel 1973, fu costruita intorno a un motore bicilindrico e aveva una cilindrata di 898 cm3 , ottenuta aumentando l&rsquo;alesaggio della R 75 da 82 a 90 mm. Erogava 67 CV a 7000 giri/min e 76 Nm a 5500 giri/min. Il cambio a cinque marce era abbinato alla trasmissione finale a cardano. Il telaio aveva una struttura a doppia culla in acciaio, collegato al forcellone oscillante tramite ammortizzatori; la forcella era telescopica. Il cerchio anteriore era da 19&rdquo; (pneumatico 3.25); quello posteriore era da 18&rdquo; (pneumatico 4.00). Davanti, freni a disco da 260 mm &Oslash;; dietro, un tamburo da 200 mm. La storia di BMW, nella produzione di serie ma anche nel Racing, &egrave; legata al propulsore bicilindrico boxer raffreddato ad aria. La Casa di Monaco, con caparbiet&agrave;, ha sviluppato questa soluzione, che, sia dal punto di vista ingegneristico, sia visivamente, &egrave; molto diversa rispetto a quelle della concorrenza. Se nella produzione di serie ci&ograve; che &egrave; diverso pu&ograve; funzionare commercialmente anche senza l&rsquo;evidenza di un vantaggio prestazionale, nel Racing contano i risultati, che BMW ha ottenuto, differenziandosi dagli altri Costruttori. Oggi la moto pi&ugrave; sportiva della Casa tedesca &egrave; la M 1000 RR, che esiste anche grazie ai successi dei bicilindrici boxer. &nbsp; La Parigi-Dakar: R 80 GS   Per BMW, Racing non &egrave; stato solo sinonimo di Velocit&agrave;, anzi, inizialmente i colori BMW M hanno fatto il giro del mondo grazie al fuoristrada, per merito delle BMW R 80 GS ufficiali con cui Hubert Auriol e Gaston Rahier dominarono la Parigi-Dakar nei primi anni Ottanta. Nel 1981, BMW riusc&igrave; vinse il suo primo Rally africano con Auriol, che guid&ograve; la bicilindrica boxer preparata dai tedeschi della HPN. Auriol, dopo la vittoria spieg&ograve; che aveva ottenuto il successo perch&eacute; &ldquo;la moto era perfetta per questo tipo di gara; il motore &egrave; potente ma allo stesso tempo consuma poca benzina. Nel deserto, la R 80 GS &egrave; la migliore moto per correre sulle gobbe e sulle buche, senza caderci dentro&rdquo;. Nel 1983 Auriol vinse di nuovo la Parigi-Dakar, questa volta su una moto costruita a Parigi, con l&rsquo;assistenza di Herbert Schek. Il tre volte campione del mondo di motocross Gaston Rahier si un&igrave; al Team BMW nel 1984, regalando alla Casa di Monaco altri due successi (consecutivi) alla Parigi- Dakar (1984 e 1985). Il Bol d&rsquo;Or: HP2 Sport   Il 14 settembre 2008 la HP2 Sport del Team BMW Motorrad Motorsport concluse il suo programma sportivo con la vittoria di categoria al Bol d&rsquo;Or. La moto numero 71, guidata da S&eacute;bastien Le Grelle, St&eacute;phane Mertens e Brian Parriot si classific&ograve; prima nella Open Class, con circa 43 giri di vantaggio rispetto ai suoi concorrenti, Thierry Capela, Fred Notte e Pierre Solari, in sella alla Ducati, piazzatisi ventinovesimi nella classifica generale. L&rsquo;obiettivo (centrato) di BMW era confermare il potenziale sportivo della HP2 Sport (la bicilindrica boxer raffreddata ad aria pi&ugrave; performante di sempre, nella storia di BMW). In due anni e nove gare, la HP2 Sport ottenne sei vittorie di categoria, portando a termine quattro ventiquattro ore e conquistando un quinto e un sesto posto a Daytona. La Boxer Cup: R 1100 S  Si tratta di un campionato monomarca che, per cinque stagioni, dal 1999 al 2004 si &egrave; disputato in concomitanza con le prove del Motomondiale, con una prova che si correva a Daytona (nel 2003, vinta da un italiano, Roberto Panichi). Al via, in sella alla R 1100 S, molti piloti ed ex piloti famosi, tra cui Luca Cadalora e Randy Mamola. Quel campionato fu un trionfo anche del marketing, infatti, grazie alla Boxer Cup, BMW dimostr&ograve; che un bicilindrico boxer raffreddato ad aria poteva essere sinonimo di sportivit&agrave;. La Power Cup: K 1200 R   Fu l&rsquo;erede della Boxer Cup. La protagonista, K 1200 R, anche in questo caso non &egrave; stata scelta per caso. Questa volta BMW dimostr&ograve; che le sospensioni Telelever (anteriore) e Paralever (posteriore), utilizzate sulle moto da turismo, erano adatte anche all&rsquo;uso in pista, riuscendo a funzionare bene su grossa quadricilindrica in linea, in grado di erogare ben 175 CV. &nbsp; La Superstock 1000 FIM Cup: HP4   La S 1000 RR era nata per garantire elevate prestazioni alla portata di tutti ed &egrave; per questo che ha avuto sempre un ottimo successo commerciale (per diversi anni &egrave; stata tra le prime quattro BMW pi&ugrave; vendute a mondo) e nel Racing, in quelle competizioni che non prevedevano una profonda elaborazione del mezzo. Per questo motivo la S 1000 RR ha dominato a lungo la Superstock 1000 FIM Cup. Il primo successo &egrave; arrivato nel 2010, con Badovini; in quella stagione Ayrton sembrava invincibile, tanto che, dopo poche gare, i suoi avversari compresero che potevano correre puntando al massimo al secondo posto. Nel 2012 e nel 2013 fu Sylvain Barrier a dominare la categoria. Nel 2016 la S 1000 RR &egrave; stata portata al successo da Raffaele De Rosa e nel 2018 (l&rsquo;ultimo anno in cui questa categoria ha gareggiato) da Markus Reiterberger. La stagione tecnicamente pi&ugrave; interessante fu quella 2013; in quell&rsquo;anno BMW schier&ograve; la versione HP4 della S 1000 RR, caratterizzata dalle sospensioni semi attive di serie. Fino a quel momento nessuno pensava che quel tipo di tecnologia, sviluppata per l&rsquo;uso su strada, potesse essere competitiva nel Racing, invece... SBK e FIM EWC: S 1000 RR   La S 1000 RR debutt&ograve; nel 2008, lasciando tutto il mondo a bocca aperta, per merito di un motore eccezionale, che alz&ograve; drasticamente l&rsquo;asticella prestazionale nel segmento delle supersportive di serie. La S 1000 RR non rappresent&ograve; solo un successo tecnico ma anche di marketing. Fu l&rsquo;ultimo tassello di un grande puzzle, che serv&igrave; a dimostrare al mondo che il marchio tedesco non era leader solo nel settore delle moto gran turismo ma anche nel Racing. La S 1000 RR, infatti, &egrave; stata protagonista di un importante programma sportivo, all&rsquo;apice di cui, ovviamente, c&rsquo;era la Superbike. La S 1000 RR SBK debutt&ograve; nel 2009 e anche se BMW Motorrad non aveva un reparto corse con l&rsquo;esperienza di quelli dei migliori competitor italiani e giapponesi, in pochi anni divenne protagonista del campionato. La stagione migliore fu quella del 2012; con Marco Melandri in sella, la S 1000 RR ottenne sei vittorie e il ravennate conquist&ograve; il terzo posto nel mondiale, con 328,5 punti. Infine, il 5 giugno 2022, il BMW Motorrad World Endurancce, grazie alla S 1000 RR, ha conquistato la prima vittoria alla 24 Ore di SpaFrancorchamps. &nbsp; Il Tourist Trophy: S 1000 RR   Prima del 2014, l&rsquo;ultimo successo al Senior TT della BMW risaliva al lontano 1939. Il 2014... Un anno storico, sia per la Casa di Monaco, sia per Michael Dunlop, che in quella stagione, in sella alla quadricilindrica tedesca, fu inavvicinabile; nella stessa settimana, furono infatti ben tre le vittorie di Dunlop in sella alla S 1000 RR. La pi&ugrave; prestigiosa fu senza dubbio quella di sabato 7 giugno, quando sull&rsquo;Isola di Man si svolse la Senior TT, la gara pi&ugrave; importante del Tourist Trophy, con oltre settanta piloti al via, i migliori interpreti delle gare su strada. Per merito delle numerose affermazioni di Michael Dunlop e della S 1000 RR, l&rsquo;edizione del TT che si corse nel 2014 ebbe una risonanza mediatica incredibile; si parl&ograve; molto delle affermazioni di Michael Dunlop e del suo straordinario feeling con la S 1000 RR, che evidentemente aveva delle caratteristiche che ben si s       

Dal bicilindrico boxer, in tutte le sue &ldquo;declinazioni&rdquo;, al 4 cilindri in linea: un viaggio nella storia racing della Casa bavarese&nbsp;

BMW e il Motorsport: dalla R 90 S alla M 1000 RR

        BMW Motorsport GmbH, fondata nel 1972, riunisce tutte le attivit&agrave; motoristiche della Casa tedesca. Sotto questo tetto, per tanti anni ci sono state automobili tecnicamente estreme e innovative, come la BMW 3.0 CSL (Coupe Sport Light Construction). Tecnologia e originalit&agrave;  Parliamo di vetture (anche quelle che hanno corso in F1, come quella utilizzata da Nelson Piquet nel 1983), che inizialmente erano di colore blu, viola e rosso su fondo bianco e che oggi sono associate a inedite grafiche blu/blu scuro/rosso, abbinamento cromatico utilizzato come un plus sportivo (livrea Motorsport) su numerose moto, anche di estrazione turistica. Le moto di BMW hanno iniziato un viaggio verso la sportivit&agrave; dei modelli M attraverso le versioni caratterizzate dalle sigle HP (High Performance). Se oggi esiste la M 1000 RR (il primo modello M), il merito &egrave; anche della HP2 Enduro, della HP2 Megamoto, della HP2 Sport e soprattutto della HP4 Race, un meraviglioso esperimento tecnico, che rappresenta la massima espressione tecnologica di BMW. Il fascino dei modelli HP e del primo modello M arriva da lontano; dalle vittorie al Tourist Trophy, dai successi americani, dalle soddisfazioni ottenute alla Parigi-Dakar. BMW, sia nel Racing, sia nella produzione di serie, ha quasi sempre scelto soluzioni tecniche diverse rispetto a quelle della concorrenza; ha creduto in queste idee, le ha sviluppate anche quando non sembravano quelle migliori, le ha rese efficienti e vincenti, creando dei prodotti non solo differenti ma anche performanti e caratterizzati da una guidabilit&agrave; che identifica il marchio BMW. Solo un Costruttore che pu&ograve; investire molto denaro per sviluppare tecnologia &egrave; in grado di intraprendere con successo queste strade, piene di rischi (la certezza di raggiungere l&rsquo;obiettivo non &egrave; mai scontata) e di costi (quando si sviluppa qualcosa di diverso, non si pu&ograve; attingere al lavoro svolto da altri. Il bicilindrico boxer &egrave; il fulcro di questo lavoro, riassunto in queste pagine. Un antipasto da gustare prima del prossimo numero, in cui parleremo delle moto Racing. The Test: Voge Valico 600 DS, il top Made in China &nbsp; HP2 Enduro   &Egrave; stata presentata nel 2005, lasciando tutti a bocca aperta. Oggi, le moto di grossa cilindrata adatte ad affrontare il fuoristrada estremo sono molte ma all&rsquo;epoca enduro era sinonimo di monocilindriche compatte. La HP2 Enduro nasceva intorno al bicilindrico boxer raffreddato ad aria e olio della R 1200 GS; la versione HP aveva 105 CV, circa cinque cavalli in pi&ugrave; rispetto alla potenza erogata dalla cugina da turismo, che era oltre 20 kg pi&ugrave; pesante. Per la HP2 Enduro, infatti, BMW dichiarava solo 175 kg a secco. Il telaio era a traliccio in tubi d&rsquo;acciaio, all&rsquo;avantreno il Telelever era stato sostituito da una forcella a steli rovesciati e la sella, molto alta, aveva una forma che ricordava quelle delle vere moto da enduro. Niente elettronica, neppure l&rsquo;ABS, poco utile in fuoristrada. La trasmissione finale era sempre a cardano. &nbsp; HP2 Megamoto   Nel 2006 BMW allarga la gamma HP2, presentando la versione Megamoto, ancora pi&ugrave; estrema rispetto alla HP2 Enduro. La potenza del motore boxer, grazie anche allo scarico Akrapovic, sale a 113 CV, il peso dichiarato resta molto contenuto (178 kg a secco). Pur cambiando le quote ciclistiche, adatte all&rsquo;uso su strada, restano il telaio a traliccio in tubi d&rsquo;acciaio (il motore, a differenza della R 1200 GS non ha funzione portante) e la forcella Marzocchi con steli rovesciati di 45 mm &Oslash;. Al retrotreno, al posto dell&rsquo;ammortizzatore ad aria, era stato utilizzato un componente &Ouml;hlins. Inedito l&rsquo;impianto frenante, studiato per l&rsquo;utilizzo sportivo: doppio disco anteriore flottante da 320 mm &Oslash; e pinze a quattro pistoncini contrapposti. Al posteriore, un disco di 265 mm &Oslash;. &nbsp; HP2 Sport   Nel 2007 BMW inizia il suo percorso di avvicinamento alla Velocit&agrave;, con la HP2 Sport (a sinistra, la versione Motorsport, presentata nel 2009), la naturale evoluzione delle versioni che, dagli anni &lsquo;90, erano state protagoniste della Boxer Cup, di cui parleremo approfonditamente nel prossimo numero. Il bicilindrico della HP2 Sport, sempre raffreddato ad aria e olio ma caratterizzato dalla testata con due alberi a camme (i propulsori delle HP2 Enduro e HP2 Megamoto avevano la distribuzione monoalbero) erogava 130&nbsp; CV a 8750 giri/min e 115 Nm a 6000 giri/min ed era in grado di raggiungere i 9500&nbsp; giri/min. Per la HP2 Sport, BMW dichiarava 178 kg a secco. La moto, di serie, era equipaggiata con il cambio servoassistito e con l&rsquo;ABS, disinseribile. All&rsquo;avantreno torna la sospensione Telelever. L&rsquo;impianto frenante &egrave; da Superbike. &nbsp; HP4 Race   Presentata nel 2017 (750 esemplari prodotti), ancora oggi rappresenta la massima espressione tecnologica di BMW Motorrad (e non solo), perch&eacute; equipaggiata con un telaio doppio trave in carbonio di produzione industriale, telaio reggisella autoportante e ruote in carbonio. La potenza massima era di 215 CV a 13.900 giri/min; la coppia massima era di 120 Nm a 10.000 giri/min. Rispetto al propulsore della S 1000 RR, la rotazione massima era passata da 14.200 giri/min a 14.500 giri/min. Aveva un&rsquo;elettronica evolutissima, che non aveva nulla da invidiare a quelle utilizzate sulle Superbike da gara. Il dato pi&ugrave; impressionante era il peso (dichiarati solo 146 kg a secco), che si traduceva in una maneggevolezza difficilmente descrivibile con le parole... &nbsp; M 1000 RR   &Egrave; la prima versione caratterizzata dalla sigla M, che non poteva non essere abbinata a una Superbike, equipaggiata con uno dei migliori motori di serie degli ultimi quindici anni. Il quattro cilindri in linea della M 1000 RR eroga 212 CV a 14.500 giri/min e 113 Nm 11.000 giri/min. Il regime massimo di rotazione (15.100 giri/min) &egrave; superiore anche rispetto a quello della HP4 Race. Il telaio non &egrave; in carbonio (le ruote invece s&igrave;) ma la rigidezza della struttura doppio trave in alluminio &egrave; stata messa a punto per l&rsquo;uso Racing. Sulla M 1000 RR debutta un pacchetto aerodinamico sviluppato per incrementare la stabilit&agrave; alle alte velocit&agrave; e in frenata. Come avviene nel settore auto, anche per questa moto &egrave; stato sviluppato un pacchetto di competizione M. Alcuni accessori saranno proposti anche su altri modelli, appartenenti segmenti di mercato meno sportivi. The Test: Triumph Tiger 1200, una moto "cinque in uno"       

BMW Motorsport, nata nel 1972, &egrave; sinonimo di auto performanti. Dal 2020, il marcho &ldquo;M&rdquo; &egrave; ufficialmente legato anche alle moto

Speciale BMW: 50 anni di sport e prodotti

        Si potrebbero trascorrere ore ad ascoltare Marco Dall&rsquo;Aglio che ripercorre la sua ultra-quarantennale carriera, un lungo lasso di tempo in cui ha calcato ogni tipo di palcoscenico, dal Cross al mondiale Superbike, fino al panorama dei Trofei nostrani in cui ha fatto incetta di vittorie. Storie Italiane: Sebastiano Zerbo, l'Agostini dei trofei &nbsp; Gli esordi&nbsp;   Un percorso cos&igrave; interessante e colmo di amore per le due ruote che diventa quasi difficile da condensare: &ldquo;Ricordo ancora i miei esordi, anche se &egrave; trascorso un po&rsquo; di tempo (ride). Iniziai con il Cross, nel lontano 1974, partecipando ai Giochi della Giovent&ugrave;. Quello fu un anno di apprendistato, ebbi addirittura l&rsquo;onore di essere intervistato dall&rsquo;indimenticabile Gian Piero Galeazzi. Con il permesso dei miei, perch&eacute; ero ancora minorenne" ricorda Dall&rsquo;Aglio, classe 1961. "Poi persi la mia cara mamma e smisi con il Motocross. Poi arrivarono gli anni &rsquo;80: iniziai, quasi per scherzo, con la Velocit&agrave; e&hellip; devo ancora smettere&rdquo; ci racconta Marco con orgoglio misto a emozione. Inizi&ograve; a mettersi in mostra, partecip&ograve; al Trofeo Kawasaki nel 1986 e in quel momento la sua carriera sembr&ograve; decollare: &ldquo;Nel 1988 presi parte ad alcune gare del Mondiale, poi nell&rsquo;Italiano arrivai quinto dietro i piloti ufficiali. Andai cos&igrave; bene che la Kawasaki mi&hellip; lasci&ograve; a piedi, ma con rabbia e voglia di rivalsa comprai la vecchia moto di Fabrizio Pirovano e iniziai la stagione successiva alla grande&rdquo;. Dall&rsquo;Aglio continu&ograve; ad apparire nel mondiale SBK e nel campionato Italiano, poi arrivarono gli anni &rsquo;90 e l&rsquo;assenza di sponsor lo lasci&ograve; senza moto. Ma Marco non si arrese e, nel 1992, partecip&ograve; al Trofeo Scooter con la Malossi: &ldquo;Arrivai secondo in campionato e a fine stagione partecipai a un evento fieristico, in cui avvenne l&rsquo;incontro o meglio dire, l&rsquo;idillio, con l&rsquo;artigiano Geminiani, per il quale ho corso per 10 anni. Insieme abbiamo vinto cos&igrave; tanti trofei nazionali che nemmeno tengo il conto&rdquo;. &nbsp; Le moto artigianali   Qui scoppi&ograve; l&rsquo;amore tra Dall&rsquo;Aglio e le moto artigianali (&ldquo;Andavo fortissimo, giravo in 1&rsquo;58&rdquo; al Mugello, un tempo ragguardevole, parliamo del 1999&rdquo;), anno in cui la morte del padre arriv&ograve; a segnare ulteriormente il percorso del parmense. &ldquo;Fu una catastrofe, lui era un pilastro per me. Ma non mollai e dopo la disgrazia feci un&rsquo;annata pazzesca, vinsi dappertutto&rdquo;. Un altro infortunio a una gamba, rimediato all&rsquo;inizio degli anni 2000 salvando un bambino in montagna, non ferm&ograve; Dall&rsquo;Aglio, che nel 2003 partecip&ograve; anche al Trofeo dedicato alle Ducati 749: &ldquo;All&rsquo;ultima gara, a Imola, ottenni vittoria e giro veloce. Venni premiato da Neil Hodgson, un grande orgoglio per me&rdquo;. Una bella soddisfazione, ma che non sazi&ograve; la voglia del pilota: &ldquo;Dopo aver vinto il Motoestate nel 2009 credevo di aver chiuso la mia carriera ma incontrai, tramite un amico, Roberto Pattoni e mi innamorai della mitica Paton&rdquo;. Un&rsquo;altra scommessa vincente: &ldquo;Da allora vincemmo tutto tra le Moto d&rsquo;Epoca, sia in Italia che all&rsquo;estero, fu un&rsquo;altra esperienza incredibile&rdquo;. Dopo aver fatto collezione di successi nel Motoestate, per Dall&rsquo;Aglio sembrava nuovamente giunto il momento di dire basta. E invece&hellip; &ldquo;Nel 2015 decisi di andare in pensione ma l&rsquo;anno seguente mi telefon&ograve; un altro artigiano, il telaista Moretti di Livorno. Da allora corro con i prototipi nella Battaglia dei Bicilindrici, in cui ho vinto due campionati&rdquo;. &ldquo;Lavorare sempre, fermarsi mai&rdquo; &egrave; il motto di Dall&rsquo;Aglio, che ha gi&agrave; ben chiari i piani per il 2022: &ldquo;Da tre mesi lavoro a una vecchia TGM assieme al meccanico di Michele Rinaldi (campione del mondo Motocross 125 nel 1984, ndr), parteciper&ograve; a qualche gara d&rsquo;epoca nel Motocross, ma non abbandoner&ograve; i bicilindrici&rdquo;. Dall&rsquo;Aglio ha superato i 60 anni ma sembra ringiovanire con il passare del tempo: &ldquo;Ricordo un episodio quando, al termine di una gara, sul podio, dei ragazzini di 15-17 anni si stupirono della mia et&agrave;. &lsquo;Sarebbe bello arrivare alla tua et&agrave; e correre al tuo livello&rsquo;, mi dissero. Fu un complimento che mi fece scendere le lacrime, ripag&ograve; gli sforzi di tutti questi anni&rdquo;. In effetti, Dall&rsquo;Aglio la moto non l&rsquo;ha mai lasciata e non sembra intenzionato a farlo: &ldquo;Quando vado in pista, la mia soddisfazione &egrave; accorgermi di girare come prima, se non meglio. Ho la fortuna di avere un fisico in salute, non mi stanco mai, giro, giro&hellip; pensa: in alcune domeniche mi &egrave; capitato di partecipare a due gare nello stesso giorno, io ero fresco mentre i pi&ugrave; giovani avevano la lingua di fuori. Pratico karate da 40 anni e stare in mezzo ai ragazzi mi aiuta tanto. Bisogna mantenere la stessa voglia di fare, non bisogna mai sedersi e accontentarsi&rdquo; ripete Marco, prima di lasciarsi andare al racconto di qualche aneddoto. &nbsp; Gli aneddoti&nbsp;   &ldquo;Potrei raccontarne tanti, ma ve ne dico uno legato al&hellip; mio cane. Ricordo quella volta in cui eravamo a Misano e portai con me il mio boxer. Non lo legai e, quando entrai in pista, me lo vidi sull&rsquo;erba pronto a correre verso di me. Mi fermai, lo presi e tornai indietro. Lo legai e tornai a girare. Matitaccia su Motosprint mi dedic&ograve; una vignetta con scritto &lsquo;Dall&rsquo;Aglio ha un idillio con il suo cane: Non lo lascia nemmeno quando va in pista&rsquo;&rdquo;. E ancora: &ldquo;Guarda, io sono andato anche all&rsquo;Isola di Man, potevo correrci ma mio padre non ha mai voluto. Potevo andarci anche con la Paton, ma tenni fede alla promessa fatta. Ricordo quando nel 2005 andai per il giro d&rsquo;onore e alla premiazione c&rsquo;era il mitico McGuinness: mi presentai e, mentre beveva un litro di birra, gli chiesi di firmare la mia medaglia. Poggi&ograve; la birra e mi disse: &lsquo;S&igrave;, ma tu devi firmare la mia&rsquo;&rdquo;. Una bella soddisfazione, una delle tante che Dall&rsquo;Aglio ha raccolto nella sua carriera. &ldquo;Nel 1998, all&rsquo;ultima apparizione in Superbike con una Yamaha &rsquo;93 ex Meregalli, a Misano, mi tolsi la soddisfazione di dare tre decimi abbondanti a Noriyuki Haga che girava con l&rsquo;ultimo modello. Robe che sui giornali non leggi, ma che restano nel mio cuore. Se non posso raccontarle ora, quando dovrei farlo?&rdquo; chiosa Dall&rsquo;Aglio. Storie Italiane: Corrado Catalano, il dramma e il sollievo       

"Corro da quarant'anni, ho passato i 60 ma non voglio smettere. Le mie gioie pi&ugrave; grandi? Non solo le vittorie, ma i complimenti di Haga e dei piloti pi&ugrave; giovani..."

Storie Italiane: Marco Dall'Aglio, l'Highlander delle moto

        Divenuto portabandiera dell&rsquo;industria aeronautica italiana durante la Prima Guerra mondiale, nei vent&rsquo;anni successivi Giovanni Battista Caproni aveva consolidato questa sua posizione espandendosi industrialmente anche all&rsquo;estero, conquistando record mondiali e mirando a traguardi tecnici sempre pi&ugrave; ambiziosi. Polvere di stelle: Alessandro Anzani, il primo campione del mondo Dagli idrovolanti alle due ruote  Fra questi, l&rsquo;idrovolante per passeggeri Ca.60 &ldquo;Transaereo&rdquo; del 1921, il pi&ugrave; grande del Mondo nel suo genere, con tre ali triplane e otto motori, e il Campini-Caproni CC-2 del 1940, che fu preceduto nella sperimentazione della propulsione a reazione soltanto dall&rsquo;Heinkel HE-178, ma che stabil&igrave; un primato mondiale nel 1941 volando da Milano a Roma. Poi l&rsquo;Italia precipit&ograve; nel disastro della sconfitta militare della Seconda Guerra mondiale e con essa la Caproni, che da industria aeronautica d&rsquo;avanguardia dovette subire l&rsquo;onta del fallimento e mettersi alla ricerca di nuovi orizzonti produttivi, presto individuati nella motocicletta. L&rsquo;approccio con le due ruote motorizzate avvenne nel 1946, dapprima con un motorino ausiliario per biciclette progettato in proprio a Taliedo e rimasto allo stadio di pre-serie per l&rsquo;eccessiva complessit&agrave; e i costi di produzione a essa legati. Nello stesso anno, per&ograve;, lo stabilimento di Arco di Trento, in accordo con il progettista del Ducati &ldquo;Cucciolo&rdquo; inizi&ograve; a produrre in serie un telaio elastico speciale, un&rsquo;operazione che diede buoni frutti e convinse i dirigenti della Caproni ad accettare nel 1949 una commessa della Mondial per la costruzione di 1000 telai per le 125 dei fratelli Boselli. Il passo successivo - pressoch&eacute; inevitabile - fu la progettazione di un&rsquo;intera motocicletta. Si cominci&ograve; nel 1950 con l&rsquo;allestimento del prototipo di ciclomotore di 48 cm&sup3;, non uno fra i tanti, bens&igrave; un motorino del tutto originale, con ciclo a quattro tempi, albero motore rotante in senso trasversale rispetto all&rsquo;asse del veicolo, coppia conica per la trasmissione primaria e distribuzione con coppia conica inferiore, asta verticale e tazza orizzontale con camme agenti su due bilancieri. Il Capriolo  Evidentissima l&rsquo;intenzione del progettista di proporre qualcosa capace di distinguersi nel panorama tecnico non soltanto nazionale. Il ciclomotore, battezzato &ldquo;Capriolo&rdquo;, non ebbe successo, ma la Aero-Caproni trentina non si arrese e nel 1951 present&ograve; lo stesso motore con cilindrata di 75 cm&sup3; e con un telaio anch&rsquo;esso decisamente originale: un doppia culla chiusa in lamiera stampata con forcella idraulica a steli inferiori e sospensione posteriore a forcellone oscillante con ammortizzatori a frizione. Il Capriolo 75, a differenza del 48, incontr&ograve; il favore del pubblico: i suoi 3,5 CV erano sufficienti a garantirgli buone prestazioni e forse fu anche l&rsquo;originalit&agrave; tecnica, nonch&eacute; la fama di quel marchio glorioso e indimenticato, ad assicurargli il successo commerciale. Avuta cos&igrave; la conferma della bont&agrave; delle soluzioni adottate, i progettisti della Aero-Ca proni nel 1952 si spinsero ancor pi&ugrave; avanti creando il Capriolo Cento-50, con motore bicilindrico boxer replicante le caratteristiche tecniche del 75. In Italia, per l&rsquo;epoca, una 150 a due cilindri era una moto importante, una &ldquo;top di gamma&rdquo; che si proponeva ai motociclisti pi&ugrave; appassionati e appartenenti alla borghesia medio-alta; ricordo che nella mia citt&agrave;, Faenza, ce n&rsquo;era una e apparteneva a un farmacista. Il prestigio del Cento-50 non riusc&igrave; per&ograve; a prevalere sulla crescente fama del Capriolo 75, alla quale contribu&igrave; la constatazione che la piccola moto Caproni era in grado di ben figurare anche nelle corse di Velocit&agrave; e di Regolarit&agrave;. Sopportava infatti anche generose elaborazioni senza perdere nulla in affidabilit&agrave;, e lo dimostr&ograve; il pilota Claudio Galliani che nel 1954 e 1955 port&ograve; la 75 alla vittoria rispettivamente nella Milano-Taranto e nel Motogiro. Alla fine del 1956 al Salone del Motociclo di Milano debutt&ograve; il Capriolo 125, che manteneva il caratteristico telaio in lamiera stampata e la distribuzione monoalbero in testa con alberino verticale e camme a tazza, ma il motore era completamente ridisegnato, con l&rsquo;adozione dell&rsquo;albero motore in posizione classica a rotazione longitudinale. Tale modello fu l&rsquo;ultimo marcato Aero-Caproni: dal 1957 la Regione Trentino-Alto Adige si accoll&ograve; la gestione e la propriet&agrave; dell&rsquo;azienda, entrata in profonda crisi finanziaria nonostante il buon andamento delle vendite, e la ragione sociale mut&ograve; in Aeromere (dapprima Aero-Metallurgica-Regionale, poi Aero-Meccanica-Regionale). Nel volgere di quattro anni, la gamma produttiva fu completamente rinnovata: nel 1958 fu presentato il Capriolo 75 in tre versioni, con il nuovo motore basato su quello del 125 e un telaio monoculla chiusa in lamiera stampata munito di sospensioni teleidrauliche. Tale ciclistica fu adottata nel 1959 sul 125, infine nel 1961 fece la comparsa il modello 100 con le medesime caratteristiche tecniche del 75 e del 125. Il declino  Se nei primi cinque anni del decennio il Capriolo 75 si era distinto nelle corse di Velocit&agrave;, specialmente sulle lunghe distanze, dal 1958 al 1961 il 75 e il 125 divennero quasi imbattibili nelle corse di Regolarit&agrave;, vincendo anche numerose medaglie d&rsquo;oro alla Sei Giorni Internazionale. Ma tutto questo non bast&ograve; a evitare la crisi definitiva dell&rsquo;azienda: il crollo generalizzato del mercato motociclistico, motivato dal boom dell&rsquo;utilitaria a quattro ruote, unito a errori di gestione, port&ograve; dapprima la dirigenza a sperimentare soluzioni produttive diverse, come un motoscafo entrobordo, poi alla cessazione dell&rsquo;attivit&agrave; industriale alla fine del 1962. C&rsquo;era, a Vizzola Ticino, nei pressi di Busto Arsizio, una seconda fabbrica motociclistica avviata dalla Caproni nel 1953, nello stabilimento in cui &ndash; finch&eacute; gli eventi bellici non lo avevano impedito &ndash; si erano costruiti aeroplani. La Caproni-Vizzola, a differenza della Aero-Caproni di Trento, scelse di produrre motociclette con ciclistica di propria progettazione e motore NSU. Va precisato che in quel momento la fabbrica tedesca era qualitativamente ai vertici della produzione mondiale, per cui il modello Max 250, con cui la Casa lombarda debutt&ograve; sul mercato presentando una moto dal design pi&ugrave; raffinato dell&rsquo;originale tedesco, ottenne un buon gradimento, limitato comunque dal fatto che tale cilindrata aveva ancora una scarsa diffusione per motivi economici. Per questo motivo, al modello Max vennero affiancati il Lux 200 con motore NSU a due tempi da 8,6 CV, decisamente meno appetibile del Max anche se pi&ugrave; economico d&rsquo;acquisto, e il 175 motorizzato da un monocilindrico FBM a quattro tempi. Nel 1955 infine entr&ograve; in produzione il Capriolo Quickly 48 propulso da un NSU a due tempi due marce. La Caproni-Vizzola non riusc&igrave; mai a conquistare quote soddisfacenti di mercato, per cui gi&agrave; nel 1959 cess&ograve; la produzione motociclistica e fu ceduta alla Agusta. Polvere di stelle: Ader, genio incontenibile       

Dopo la riconversione, l&rsquo;azienda trentina pass&ograve; dai velivoli alle moto, ed ebbe successo con il Capriolo, ma non bast&ograve; per evitare la crisi di inizio anni &lsquo;60

Polvere di stelle: ascesa e declino della Caproni

        Il 2 gennaio 1915 l&rsquo;industria Gnome dei fratelli Seguin complet&ograve; l&rsquo;acquisizione della ditta Le Rh&ocirc;ne fondata da Louis Verdet. In questo modo, dopo alcuni anni di dura concorrenza sul mercato dei motori aeronautici, nel quale si erano contese la leadership, le due aziende diedero vita a un colosso specializzato nella costruzione di propulsori &ldquo;rotativi&rdquo;, con i cilindri disposti a stella in cui l&rsquo;elica era fissa sul carter e ruotava con il blocco. Polvere di stelle: la dinastia Caldarella &nbsp; La nascita di un colosso   Nel frattempo era scoppiata la Grande Guerra e con essa la richiesta spasmodica di aeroplani da ricognizione, da caccia e bombardamento da parte di tutti i Paesi coinvolti. La nuova societ&agrave;, denominata &ldquo;Gnome Rh&ocirc;ne&rdquo;, divenne la principale produttrice di motori aeronautici del Mondo, con licenziatari in diversi Paesi, tra cui Inghilterra, Svezia, Stati Uniti, Russia e Italia. Persino in Germania &ndash; pur facente parte della nemica Triplice Alleanza &ndash; furono ampiamente utilizzati i rotativi Oberursel, copie dei Gnome Rh&ocirc;ne inizialmente costruiti su licenza. Nel nostro Paese questi motori durante la guerra furono prodotti dalla Chiribiri di Torino. 25.000 ne furono realizzati in Francia e pi&ugrave; di 75.000 all&rsquo;estero dalle licenziatarie, un&rsquo;attivit&agrave; frenetica e remunerativa che per&ograve; cess&ograve; con il Trattato di Versailles, quando le armi furono deposte e il mercato &ldquo;civile&rdquo; torn&ograve; a imperare. Gli ordini di motori aeronautici crollarono di colpo e la Gnome Rh&ocirc;ne, in assenza di una diversificazione industriale gi&agrave; avviata su cui ripiegare, entr&ograve; in una pesantissima crisi, aggravata dalla prematura morte dei due fondatori, Louis Seguin e Louis Verdet, vittime nel 1918 della micidiale influenza spagnola. Sommersa dai debiti e incapace di riprendersi nonostante l&rsquo;approccio a settori industriali diversi, la Gnome Rh&ocirc;ne fu messa in liquidazione nel 1921 e si salv&ograve; soltanto grazie all&rsquo;intervento di due banchieri, Henry Baeuer e Charles Marchal. &nbsp; Paul Louis Weiller  Ma il vero artefice della rinascita della grande azienda parigina fu Paul Louis Weiller, asso pluridecorato dell&rsquo;aviazione francese durante la guerra e figlio di Lazare Weiller, famoso imprenditore, deputato e senatore, promotore dello sviluppo dell&rsquo;aeronautica e della telegrafia senza fili, inventore eclettico che ispir&ograve; persino il lungimirante scrittore Jules Verne. Paul Louis Weiller, nato a Parigi nel 1893, segu&igrave; le orme del padre e fu uno dei grandi protagonisti del suo tempo. Inizi&ograve; la carriera di imprenditore nel primo dopoguerra, quando si occup&ograve; di energia attraverso ricerche petrolifere in Venezuela e nel Golfo del Messico, di gas in Texas e di elettricit&agrave; in Giappone. Nel 1923, a soli 30 anni, arriv&ograve; al timone di una Gnome Rh&ocirc;ne sull&rsquo;orlo del fallimento e subito lo orient&ograve; e lo tenne con fermezza portando &ldquo;la nave&rdquo; fuori dalla tempesta. Al suo insediamento, Weiller aveva trovato un&rsquo;azienda nel caos, dedita a ben 37 attivit&agrave; diverse, nessuna delle quali in grado di offrire prospettive di rilancio industriale. Tra queste la produzione su licenza, dal 1920, della moto inglese ABC, costruita dalla fabbrica di aeroplani Sopwith, che durante la guerra aveva costruito il famoso caccia &ldquo;Camel&rdquo;. La ABC, progettata dal noto ingegnere inglese Grandville Bradshaw, era una bicilindrica a V di 180&deg; (boxer) quattro tempi di 398 cm&sup3; con i cilindri contrapposti orizzontali disposti trasversalmente al telaio, uno dei primi &ldquo;doppia culla&rdquo;. Modernissima, con la distribuzione a valvole in testa, il cambio a quattro rapporti, la trasmissione finale a catena, sospensioni elastiche su entrambe le ruote e freni a espansione interna, fu &ldquo;francesizzata&rdquo; dal tecnico inglese Graham Fenton, direttore della Gnome Rh&ocirc;ne, che ne miglior&ograve; ulteriormente le caratteristiche, operando in particolare su distribuzione e lubrificazione e dotando il motore di kick starter per l&rsquo;avviamento (incredibilmente assente sul modello originale). La versione francese ebbe subito un buon successo nel suo Paese, che aument&ograve; quando, su pressione di Paul Louis Weiller &ndash; che aveva deciso di far cessare alla fabbrica ogni altra attivit&agrave; che non fosse la costruzione di motori aeronautici e motociclette &ndash; al modello di 398 cm&sup3; venne affiancata una versione di 500 cm&sup3;, pi&ugrave; potente, studiata per l&rsquo;applicazione del sidecar. L&rsquo;abilit&agrave; imprenditoriale di Weiller, unita a una determinazione mancata negli anni precedenti e alla spregiudicatezza nell&rsquo;influenzare le decisioni politiche in favore della sua azienda, fece s&igrave; che anche il settore aeronautico riprendesse quota riportando la Gnome Rh&ocirc;ne in posizione preminente nel settore. La motocicletta bicilindrica derivata dalla ABC fu prodotta dalla Gnome Rh&ocirc;ne in 3000 esemplari fino al 1924; nel frattempo venne presentato un nuovo modello di 500 cm&sup3; monocilindrico a quattro tempi completamente progettato dalla fabbrica francese, a dimostrazione dell&rsquo;intenzione di consolidare l&rsquo;immagine di industria motociclistica. Un disegno che trov&ograve; conferma nel biennio 1924-25 con il debutto di altri due modelli originali, una 250, poi una 125, con motore a due tempi. &nbsp; La produzione a due ruote   La gamma motociclistica Gnome Rh&ocirc;ne si ampli&ograve; anno dopo anno, con l&rsquo;inserimento di una 350 monocilindrica 4T a valvole laterali, di versioni a valvole in testa della 500 monocilindrica, quindi, nel 1930, con la nuova 500 bicilindrica boxer trasversale a valvole laterali, con cambio a tre rapporti e trasmissione finale ad albero. Elemento di distinzione di questa &ldquo;ammiraglia&rdquo; era un bellissimo, robusto e leggero telaio in lamiera stampata, che ben si accordava con la riuscita estetica della moto e che poi venne adottato sulle monocilindriche. Dal 1932 il modello ebbe la distribuzione a valvole in testa e il cambio con la quarta marcia a richiesta. Nel 1934 entr&ograve; nel catalogo anche una 250 a valvole laterali, la &ldquo;Junior&rdquo;, e l&rsquo;anno dopo fu la volta di una 750 bicilindrica derivata dalla 500, quindi di una 100 cm&sup3; due tempi con cui la Gnome Rh&ocirc;ne riprese la produzione motociclistica dopo la Seconda Guerra mondiale, conflitto in cui la Gnome Rh&ocirc;ne gioc&ograve; un ruolo importante, ma fortemente discusso per la collaborazione con la Repubblica di Vichy. Nel dopoguerra la gamma fu alimentata soltanto da modelli con motori a due tempi di cilindrata da 100 a 200 cm&sup3; in diverse versioni soprattutto economiche. Nel 1946 venne presentato il prototipo di una 350 con motore due tempi a due cilindri sdoppiati (quattro pistoni); nel 1950 fu il turno della 500 Super Star, una bicilindrica frontemarcia 4T a valvole in testa. Entrambe queste proposte non ebbero seguito. In seguito alla nazionalizzazione dell&rsquo;azienda, nel 1945, la politica industriale privilegi&ograve; il comparto aeronautico investendo ingenti somme (penalizzando cos&igrave; la divisione moto) per recuperare il divario tecnico accumulato rispetto alle concorrenti straniere che stavano gi&agrave; collaudando motori a reazione. La scelta caus&ograve; una progressiva decadenza del marchio Gnome Rh&ocirc;ne, mantenuto soltanto sulle moto, che alla fine del 1960 usc&igrave; di scena. Polvere di stelle: Argentina, figlia dell'Europa       

Superata la crisi successiva alla Grande Guerra grazie a Weiller, l&rsquo;azienda parigina fu protagonista con una gamma ricca ed eterogenea

Polvere di stelle: Gnome Rhône, gloria francese

        Classica, affascinante, esagerata. Di sicuro, non una moto per tutti. Mezzi come la nuova BMW R 18 B sfuggono alle categorie del razionale per andare a solleticare direttamente le corde dell&rsquo;immaginazione. Perch&eacute; quello delle bagger, in fondo, &egrave; davvero un mondo a parte: non pienamente assimilabile al classico concetto di custom-cruiser e ugualmente distante dall&rsquo;universo gran turismo. Ed &egrave; forse per questo, che tra i modelli nati attorno al big boxer da 1803 cm3 di Casa BMW, &egrave; proprio la R 18 B quello che attira di pi&ugrave; l&rsquo;attenzione. Quattrocento chili di pura suggestione (per l&rsquo;esattezza, 398 kg in ordine di marcia), capaci di trasformare una semplice passeggiata in moto in un pomeriggio da rockstar. The Test: Triumph Tiger 850 Sport, una tigre ammaestrata Bestiale  Forse per le casse Marshall che pompano di brutto, oppure per la sensazione di raggiungere ogni luogo su un mezzo fuori dal comune; e una volta l&igrave;, via il casco, chitarra in braccio e dritti sul palco. Il pacchetto tecnico &egrave; sorprendentemente ricco. Non soltanto perch&eacute; c&rsquo;&egrave; tanta elettronica di ultima generazione (sia di serie che in optional, compreso un sofisticato cruise control adattivo di tipo automobilistico) ma soprattutto per un unicum come il bicilindrico boxer raffreddato ad aria/olio da 1802 cm3 . Un bestione capace di esprimere la potenza massima di 91 CV e un picco di coppia da autentico rimorchiatore (si viaggia sopra i 150 Nm tra i 2000 e i 4000 giri/ min), che avevamo gi&agrave; conosciuto a bordo della R 18 &ldquo;normale&rdquo; (che poi di &ldquo;normale&rdquo; ha davvero ben poco). In generale, le due moto condividono una base progettuale pressoch&eacute; identica; a differenziare, oltre alle borse integrate, al citato impianto audio, alle quote ciclistiche &ldquo;dedicate&rdquo; e a sospensioni (al posteriore) di diversa escursione, c&rsquo;&egrave; la carenatura montata sul manubrio, che ospita il sontuoso quadro strumenti, formato da quattro indicatori circolari analogici e da un moderno display TFT da 10,25&rdquo;. Attraverso quest&rsquo;ultimo, sfruttando i pulsanti dedicati e la tipica &ldquo;rotella&rdquo; al manubrio, presente sul blocchetto sinistro di molte BMW, &egrave; possibile muoversi tra i men&ugrave; per controllare info, parametri, setting dell&rsquo;elettronica e - sfruttando anche la connettivit&agrave; con lo smartphone - navigazione, musica, chiamate e tanto altro.  Magnetica  Bellissimi i cerchi in lega di alluminio (da 19&rdquo; all&rsquo;anteriore e 16&rdquo; al posteriore). La capacit&agrave; del serbatoio raggiunge i 24 litri, mentre le luci sono a LED (in optional, anche di tipo cornering). Prima di saltare in sella, tentiamo una valutazione estetica. Che su una moto cos&igrave;, trascende le normali categorie del bello e del brutto, per abbracciare le logiche del fascino e dell&rsquo;unicit&agrave;. Non si tratta di una semplice questione di gusto, perch&eacute; ad entrare in gioco, in questo caso, sono elementi di giudizio pi&ugrave; sottili e inafferrabili. Un magnetismo estremo, che rapisce lo sguardo a partire dai cilindri del super boxer XXL, passando per l&rsquo;ampia carenatura anteriore e le valigie integrate a disegnare i contorni di una seducente creatura della notte. E poi i particolari, come la firma Marshall sui diffusori audio (chi possiede un amplificatore della Casa inglese, sa quanto sex-appeal emanino, prima ancora di ruggire note sotto i colpi del plettro); e le finiture, curatissime. Insomma, poche storie, la R 18 B sa come stregare chiunque... e ci riesce! Su strada   Passando all&rsquo;analisi dinamica, iniziamo da un semplice assunto: pur non potendo vantare la stessa protettivit&agrave; e opulenza della sorella GT, la Transcontinental, la B nasce comunque per macinare strada. Posizione di guida comoda, seduta confortevole (la sella &egrave; a 720 mm da terra), manubrio ampio e ben distanziato; pedane in posizione centrale alla ricerca della migliore ergonomia possibile. Sono questi gli elementi di una formula che sulla R 18 B funziona egregiamente e mette voglia di viaggiare, almeno fino a quando la velocit&agrave; non scende sotto i 30 km/h. Se in movimento, infatti, il peso della moto sparisce come d&rsquo;incanto (e in maniera a dir poco sorprendente), nelle manovre a bassa andatura, o da fermo, si fa sentire tutto prepotentemente. In questi frangenti, occorrono gambe forti e un livello di attenzione sempre alto. Ancora di pi&ugrave; in due, e a pieno carico. Altro capitolo &ldquo;bivalente&rdquo; sul fronte del giudizio sono le vibrazioni. Se da un lato, in accelerazione rendono piacevolmente &ldquo;viva&rdquo; la belva, dall&rsquo;altro, intorno ai 4000 giri la frequenza si fa un po&rsquo; eccessiva, soprattutto in zona sella. In compenso, in sesta marcia, a velocit&agrave; autostradale, si sta in piena comfort zone a ridosso dei 3000 giri. Detto questo, BMW dimostra di crederci fino in fondo: Rain a parte, le altre due modalit&agrave; di guida a disposizione - in perfetta sintonia col mezzo - si chiamano Rock e Roll. E qui, &egrave; subito chiaro il messaggio della Casa tedesca... Se la seconda, infatti, fa annusare tutto il potenziale selvaggio che anima &ldquo;the big boxer&rdquo;, Rock ne scatena a pieno l&rsquo;indole teppistica, trasformando questa bagger in un &ldquo;toro-alfa&rdquo; da afferrare per le corna. La bordata di coppia, unita alla maggiore reattivit&agrave; al comando del gas, &egrave; come un colpo di bazooka che fionda in avanti, riducendo a un battito di ciglia la percezione spazio-temporale. Per fortuna, i freni (a dire il vero, pi&ugrave; potenti che modulabili, con una prima parte della corsa della leva meno incisiva) si fanno trovare sempre pronti, garantendo decelerazioni decise; fondamentali, quando il ritmo nel misto aumenta e ci si fa prendere un po&rsquo; troppo la mano. E a proposito, tra le curve, la R 18 B si muove precisa e agile come proprio non ti aspetteresti. Le sospensioni lavorano molto bene (un bel mix tra sostegno e comfort), il feeling &egrave; elevato, e ritrovarsi ben oltre la soglia tipica di utilizzo di una moto cos&igrave;, &egrave; davvero un attimo. Soltanto le pedane, che arrivano piuttosto in fretta (e piuttosto saggiamente) a grattare l&rsquo;asfalto, ci ricordano che tra le gambe stringiamo quasi 400 chili di moto. Ma nonostante questo, quanto &egrave; divertente farle grattare? Prezzo  Infine, una considerazione sul prezzo. Non soltanto si tratta di una BMW ma qui si pagano anche l&rsquo;unicit&agrave; del progetto e la tecnologia a bordo, ben mimetizzata dal &ldquo;vestito&rdquo; classico. La R 18 B vanta una dotazione moderna, impreziosita da sistemi premium di ultima generazione. Malgrado ci&ograve;, il prezzo a partire da 27.200 Euro - che pu&ograve; superare facilmente i 30.000, se si desiderano optional come la retromarcia (1000 Euro) - potrebbe rappresentare un disincentivo per tanti. Ma lo avevamo specificato subito, sin dall&rsquo;inizio: questa non &egrave; una moto per tutti. E va bene cos&igrave;. The Test: KTM RC 390, un gioco da grandi       

Non &egrave; una moto razionale, ma molto passionale. Un mostro di coppia che, pur non essendo una piuma, &egrave; molto fruibile. Merito anche dell'elettronica

The Test: BMW R 18 B, una moto esagerata

In questa rubrica abbiamo ricordato pi&ugrave; volte che non esistono corpi perfettamente rigidi. Questo significa che inevitabilmente gli organi meccanici, durante il funzionamento, si deformano. Le forze che agiscono su di essi causano cio&egrave; piccole variazioni geometriche e/o dimensionali. Quando il pistone arriva al punto morto superiore al termine della corsa di scarico la forza d&rsquo;inerzia raggiunge il suo massimo, che nei motori molto veloci pu&ograve; assumere valori impressionanti. In tali condizioni inevitabilmente la biella si allunga (la sollecitazione a trazione &egrave; massima), l&rsquo;occhio della testa si ovalizza e addirittura essa tende a staccarsi dal cappello.  I due semigusci che costituiscono la bronzina sono leggermente rastremati in corrispondenza della zona di unione proprio per evitare ogni rischio che si possano formare scalini non tanto dopo il serraggio delle viti del cappello (da piccoli errori di allineamento di quest&rsquo;ultimo) quanto soprattutto durante il funzionamento. &Egrave; per questa ragione che nei motori veloci, se la biella &egrave; dotata di un cappello amovibile (cosa indispensabile quando l&rsquo;albero &egrave; in un sol pezzo), non si impiegano cuscinetti a rullini. Tale soluzione, che richiede lavorazioni estremamente accurate e dimensionamenti calcolati con grande cura, &egrave; accettabile soltanto se i regimi di rotazione sono decisamente ridotti (come nel caso dei bicilindrici boxer Zundapp di una volta e dei vecchi monocilindrici Guzzi con volano esterno). Per i cuscinetti di banco la situazione &egrave; diversa rispetto a quelli di biella.  Officina: l&#39;importanza della fluidodinamica  Distorsioni elastiche   Al termine della corsa di scarico, sotto l&rsquo;azione della forza d&rsquo;inerzia che tira vigorosamente il pistone e la biella verso l&rsquo;alto, l&rsquo;albero a gomiti si &ldquo;inarca&rdquo; tra i due supporti, con i bracci di manovella che flettono (e pure i supporti si deformano elasticamente). Il leggero disallineamento dei perni dell&rsquo;albero fa cambiare anche la distribuzione delle pressioni nel velo d&rsquo;olio che separa i perni stessi dalle bronzine. Nei policilindrici se l&rsquo;albero &egrave; monolitico per poter impiegare cuscinetti a rotolamento occorre che il loro anello esterno sia diviso in due parti. Questa soluzione costruttiva &egrave; stata peraltro impiegata soltanto raramente, in casi nei quali non c&rsquo;erano comunque particolari esigenze di durata (motori da competizione).   I cuscinetti a sfere non risentono negativamente dei leggeri disallineamenti dei perni di banco causati dalle flessioni dell&rsquo;albero, ma quelli a rulli cilindrici sono assai meno tolleranti sotto questo aspetto. In effetti, in quelli impiegati nei motori moderni i corpi volventi non hanno una sezione perfettamente rettangolare ma sono leggermente arrotondati in corrispondenza delle estremit&agrave; o addirittura si avvicinano ad avere un profilo a botte, proprio per poter lavorare senza problemi e a lungo anche in presenza di lievi errori di allineamento. Sotto i carichi determinati dalle forze d&rsquo;inerzia e dalla pressione dei gas che agiscono sul pistone lo spinotto tende a flettersi, oltre che a ovalizzarsi, e le portate del pistone ne subiscono le conseguenze. Per evitare che il picco di pressione in corrispondenza dei margini dei fori di queste ultime possa raggiungere valori troppo elevati, in genere nei motori di alte prestazioni essi vengono leggermente svasati.  L&rsquo;importante &egrave; che queste distorsioni elastiche, che non possono essere evitate, siano ridotte al minimo. Idealmente dovrebbero essere addirittura trascurabili. In effetti questo non accade sempre e allora diventa essenziale conoscere come e in quale misura avviene la deformazione in modo da poterne tener conto in fase di progetto. Qui l&rsquo;avvento del computer e di programmi sempre pi&ugrave; evoluti si &egrave; rivelato essenziale. Grazie a questi ultimi si possono conoscere e visualizzare le distribuzioni sia delle temperature che delle tensioni all&rsquo;interno dei diversi componenti durante il funzionamento, nelle varie condizioni di utilizzo. Inoltre &egrave; possibile sapere come e in quale misura ogni organo meccanico si deformer&agrave; sotto l&rsquo;azione delle forze che lo sollecitano. E di conseguenza si pu&ograve; sapere anche come cambieranno le deformazioni in seguito all&rsquo;impiego di un materiale differente o a variazioni della geometria o del dimensionamento dei vari organi meccanici. Il computer &egrave; uno straordinario strumento a disposizione dei progettisti anche per questo, e non soltanto per l&rsquo;effettuazione dei calcoli. Dunque oltre alla realt&agrave; statica occorre pure tener conto di quella dinamica.  L&#39;importanza del montaggio   E non si deve trascurare il fatto che anche il semplice montaggio dei componenti pu&ograve; causare deformazioni di entit&agrave; non sempre trascurabile. I cuscinetti a rotolamento impiegati per il banco di diversi motori di norma sono del tipo con gioco maggiorato (C3 e talvolta perfino C4) per tener conto del fatto che in seguito alla installazione negli alloggiamenti il diametro dei loro anelli esterni, &ldquo;serrati&rdquo; radialmente per via della interferenza, subisce una lievissima riduzione. Dopo il montaggio quindi si verifica una piccolissima, ma non trascurabile diminuzione del gioco diametrale. Nelle applicazioni pi&ugrave; severe, dove anche i micron contano (come ogni grammo risparmiato), perfino la disposizione, il numero e le dimensioni delle nervature delle pareti attorno agli alloggiamenti dei cuscinetti di banco possono avere la loro importanza; se esse non sono disposte razionalmente possono infatti causare lievissimi allontanamenti dalla perfetta circolarit&agrave; della pista di rotolamento dei corpi volventi. Le canne dei cilindri subiscono una leggera distorsione in seguito al serraggio delle viti della testa.  A contare qui non &egrave; soltanto il &ldquo;tiro&rdquo; delle viti stesse ma anche la loro disposizione e quella dei fori filettati nei quali vanno ad inserirsi, oltre naturalmente alla struttura del cilindro. Le distorsioni indotte dal serraggio delle viti non sono le stesse per un cilindro open deck e uno closed deck. In ogni caso i progettisti fanno di tutto per ridurle al minimo.  Officina: il significato di Lobe Center 

Le forze che agiscono sugli organi meccanici causano variazioni geometriche e/o dimensionali

Officina: la rigidezza non &egrave; mai perfetta

Quando si parla di sollecitazioni termiche tipicamente si pensa alla testa, alle valvole, ai pistoni e talvolta anche ai dischi dei freni. Non si deve per&ograve; credere che esse siano legate soltanto alle massime temperature che vengono raggiunte. Inevitabilmente, infatti, il riscaldamento dei vari componenti non &egrave; uniforme. In altre parole, le temperature non sono distribuite in maniera omogenea nella struttura. Variano da punto a punto e talvolta anche in misura notevole. Uno degli obiettivi dei progettisti &egrave; proprio quello di ridurre per quanto possibile queste differenze. Per raggiungerlo &egrave; vantaggioso impiegare materiali con elevata conduttivit&agrave; termica, adottare sezioni considerevoli e curare attentamente il sistema di raffreddamento, onde fare passare il fluido refrigerante in quantit&agrave; considerevole proprio nelle zone pi&ugrave; critiche dal punto di vista termico.  Officina: il significato di Lobe Center  Le sollecitazioni termiche: cosa sono   Le sollecitazioni termiche alle quali si fa usualmente riferimento sono quelle di trazione e/o di compressione create appunto da differenze di temperatura cospicue tra zone molto vicine una all&rsquo;altra in uno stesso componente o tra due organi a contatto. &Egrave; chiaro che la zona pi&ugrave; calda tender&agrave; a dilatarsi in misura maggiore di quella a temperatura pi&ugrave; bassa, che di conseguenza la ostacoler&agrave; in tale suo tentativo di espansione.  Se la sollecitazione cos&igrave; generata &egrave; cospicua (per via della distanza molto ridotta e della differenza di temperatura molto considerevole) si possono avere distorsioni o addirittura formazione di crepe. I punti pi&ugrave; critici sotto questo aspetto sono quello tra le sedi delle valvole e quello tra di esse e il foro per la candela. In alcuni motori raffreddati ad aria del passato, data anche la ridotta quantit&agrave; di materiale attorno agli alloggiamenti degli anelli-sede, la formazione di crepe in tali zone talvolta era tutt&rsquo;altro che sconosciuta. &Egrave; anche per questa ragione che diversi costruttori hanno fatto ricorso a calotte, che in genere venivano incorporate all&rsquo;atto della fusione (ma non sono mancati esempi di montaggio con interferenza), nelle quali erano ricavate le pareti della camera di combustione, le parti terminali dei condotti e le superfici di tenuta, ovvero di appoggio, delle valvole. Il materiale impiegato era la ghisa (o talvolta l&rsquo;acciaio) nei motori di serie di maggiore diffusione. In quelli pi&ugrave; spinti per&ograve; si utilizzava il bronzo, che aveva una conduttivit&agrave; termica pi&ugrave; elevata e un coefficiente di dilatazione termica superiore.  Nei suoi ultimi motori da competizione la MV Agusta impiegava lo Xantal B, lega di rame contenente l&rsquo;11% di alluminio e il 4% sia di nichel che di ferro. Proprio per migliorare l&rsquo;asportazione di calore nella zona tra le sedi di scarico, senza dover fare ricorso al raffreddamento ad acqua, la BMW per i suoi bicilindrici boxer a quattro valvole con un albero a camme in ogni testa ha a suo tempo fatto ricorso alla refrigerazione mista aria-olio, con quest&rsquo;ultimo che veniva fatto passare in quantit&agrave; cospicua in tale punto critico. In questi motori l&rsquo;aria asportava il 78% del calore ceduto dai gas alle pareti metalliche e l&rsquo;olio il 22%.  Raffreddamento   Inseguito per&ograve; le superiori prestazioni dei nuovi motori bialbero della casa bavarese hanno reso inevitabile il passaggio a un sistema aria-acqua. Nel circuito di raffreddamento l&rsquo;acqua (che in questo caso sottrae il 35% del calore assorbito dalle pareti metalliche) viene fatta passare, con considerevole velocit&agrave;, in canalizzazioni praticate tra le sedi delle valvole e attorno al foro per la candela, oltre che in un vano circonferenziale pi&ugrave; grande. Un bell&rsquo;esempio di raffreddamento &ldquo;di precisione&rdquo;! Per ridurre la temperatura delle valvole e delle circostanti pareti della camera qualche anno fa la Honda ha impiegato una soluzione che da un lato ha consentito di migliorare l&rsquo;asportazione di calore per conduzione e dall&rsquo;altro ha permesso di avvicinare il vano di passaggio dell&rsquo;acqua alla zona in questione. Ha infatti eliminato gli anelli-sede riportati, per &ldquo;serrare&rdquo; convenientemente i quali occorre una considerevole quantit&agrave; di materiale attorno agli alloggiamenti e, per ottenere adeguate caratteristiche meccaniche nella zona di tenuta delle valvole, ha fatto ricorso al sofisticato processo detto laser cladding.  Nel caso specifico questa tecnologia viene impiegata per deporre un sottile strato di materiale e al tempo stesso modificare localmente la composizione del substrato (cio&egrave; della lega di alluminio della testa). Il procedimento abbina quindi una deposizione con una alligazione. Grazie a questa soluzione, nei motori di Formula Uno aspirati della casa giapponese dei primi anni Duemila &egrave; stato possibile montare valvole di 1 mm pi&ugrave; grandi e portare il vano di passaggio dell&rsquo;acqua pi&ugrave; vicino alla zona critica, cosa che ha permesso di ridurre la temperatura sia delle valvole che delle zone di tenuta e delle pareti della camera in loro prossimit&agrave;. Pure altre case, tra le quali la Fiat, hanno fatto studi e sperimentazioni in questa direzione a partire dagli anni Ottanta.  Nei motori a due tempi la maggior parte del calore ceduto dai gas alle pareti metalliche viene assorbito da quelle del cilindro, che &egrave; quindi l&rsquo;organo pi&ugrave; sollecitato dal punto di vista termico. In particolare, risultano critiche la zona della luce di scarico e le pareti ad esse adiacenti e addirittura infernale &egrave; la vita per il traversino che in molti casi divide in due parti tale luce. Non per nulla spesso la sua estremit&agrave; rivolta verso l&rsquo;interno del cilindro risulta leggermente &ldquo;arretrato&rdquo; rispetto alla parete della canna. Durante il funzionamento del motore infatti esso tende a &ldquo;gonfiarsi&rdquo; espandendosi in lieve misura proprio verso l&rsquo;interno del cilindro. Nei 2T da competizione raffreddati ad aria la distorsione del cilindro a caldo &egrave; stata a lungo un serio problema, al punto che il passaggio al raffreddamento ad acqua &egrave; ben presto diventato indispensabile, sia per poter aumentare ulteriormente le prestazioni che per rendere costante la potenza erogata per l&rsquo;intera durata della gara.  Officina: la lubrificazione e la riduzione degli attriti 

Si tratta di quelle di trazione o di compressione create da differenze di temperatura tra zone vicine

Officina: le sollecitazioni sono anche termiche

La Casa tedesca presenta le nuove R 1250 GS e BMW R 1250 GS Adventure, pi&ugrave; sofisticate e ricche rispetto al passato per quanto concerne le dotazioni di serie.  Cilindrata invariata, e riccopacchetto optional   Il bicilindrico boxer rimane di 1254 cc di cilindrata ma riceve l&#39;omologazione Euro 5 ma, nonostante tutto, mantiene una potenza massima di 136 cv. La parte ciclistica rimane invariata, mentre vengono integrati alcuni dispositivi per migliorare la guidabilit&agrave;: Dynamic Traction Control, la nuova modalit&agrave; di guida Eco e il BMW Integral ABS Pro di serie. Optional come se non ci fosse un domani: dall&#39;Hill Start Control Pro ai fari full-LED&nbsp;con illuminazione cornering.&nbsp;    Dotazione di serie top   Per garantire la migliore trazione e un elevato livello di sicurezza, i nuovi gioiellini BMW sono dotati del sistema Dynamic Traction Control. Massima efficienza, poi, con la modalit&agrave; di guida &quot;Eco&quot;, mentre quella &quot;Pro&quot; &egrave; dotata anche del controllo dinamico del freno. Di dotazione l&#39;Hill Start Control, il sistema che consente l&#39;arresto e la ripartenza in salita. A seconda dell&#39;inclinazione della moto, poi, il faro anabbagliante viene indirizzato verso la curva. Tra gli optional la &quot;luce di benvenuto&quot; e la funzione &quot;seguimi a casa&quot;. Per fornire poi un&#39;esperienza unica e il massimo di comfort, BMW ha installato un sistema di riscaldamento per la sella pilota e passeggero, noch&egrave; diverse pedane e riser manubrio rialzati.&nbsp;  Le nuove livree   Bianco solid white e vernice grigia ice-gray sono le due proposte per le versioni base, mentre le variante optional sono &quot;Triple Black Style&quot; e &quot;Rally Style&quot;. Ma, per festeggiare al meglio i 40 anni dei modelli GS, BMW lancia una livrea commemorativa &quot;40 Years GS&quot; nera e gialla, basata su un&#39;icona della storia GS: la R 100 GS.&nbsp; 

Il bicilindrico boxer rimane di 1254 cc di cilindrata e riceve l&#39;omologazione Euro 5, mantenendo una potenza massima di 136 cv

BMW: arrivano R 1250 GS e R 1250 GS Adventure

Dotazioni di serie da prima della classe e tantissimi optional. Il bicilindrico boxer rimane di 1254 cc di cilindrata e riceve l'omologazione Euro 5, mantenendo una potenza massima di 136 cv

BMW R 1250 GS e R 1250 GS Adventure FOTO

Nel 2002 le moto da Gran Premio hanno voltato pagina: le MotoGP con motori a quattro tempi (inizialmente di 990 cm3), hanno sostituito le 500 a due tempi. Questo passaggio di consegne si &egrave; rapidamente esteso anche alle altre classi. Il 2009 &egrave; stato l&rsquo;ultimo anno per le 250, il cui posto &egrave; stato preso la stagione seguente dalla Moto2. Infine, dopo il 2011 sono uscite di scena le 125, sostituite l&rsquo;anno successivo dalle Moto3. Anche in questi due casi si &egrave; passati dai motori a due tempi a quelli a quattro tempi. L&rsquo;obiettivo era quello di realizzare nuove moto in grado di fornire prestazioni pi&ugrave; o meno equivalenti a quelle dalle precedenti. Per ottenere questo &egrave; stato necessario dotare i nuovi 4T di una cilindrata ben maggiore rispetto ai 2T che andavano a sostituire&hellip; Nel caso della classe &ldquo;d&rsquo;accesso&rdquo; al Motomondiale, ossia della Moto3 di 250 cm3 e della precedente 125, pu&ograve; essere interessante effettuare un confronto in ottica tecnica.&nbsp;  Un confronto che inizia parlando della struttura. Ovvio, i due tempi sono molto pi&ugrave; semplici dal punto di vista costruttivo. Niente organi della distribuzione e niente circuito di lubrificazione (con tanto di pompe, filtri e scambiatori di calore), testa ridotta a un semplice coperchio del cilindro, con massima libert&agrave; per quanto riguarda la conformazione della camera di combustione. Per&ograve; i 2T richiedono un albero a gomiti composito e cuscinetti di banco e di biella a rotolamento. Si potrebbe obiettare che anche i monocilindrici a quattro tempi adottano praticamente sempre questo stesso schema costruttivo. Gi&agrave;, quelli di serie, ma non quelli delle Moto3, per i quali si &egrave; passati alla soluzione che prevede un albero monolitico con biella dotata di testa scomponibile e di una bronzina (in due parti ovviamente). Questo perch&eacute; le forze in gioco sono cospicue e il regime di rotazione, anche se limitato dal regolamento, rimane comunque elevato; la massima rigidezza &egrave; fondamentale. Inoltre la durata richiesta &egrave; considerevole, per dei motori da competizione.  Un&rsquo;importante differenza tra i due tipi di motore &egrave; costituita dal fatto che in quelli a due tempi l&rsquo;aspirazione non &egrave; diretta (come nei 4T) ma indiretta. La miscela aria-carburante non viene infatti aspirata direttamente nel cilindro ma nel carter-pompa, dal quale successivamente viene inviata al cilindro stesso per mezzo dei condotti di travaso. Questo significa, tanto per cominciare, che sotto l&rsquo;aspetto fluidodinamico i motori a due tempi sono molto pi&ugrave; complessi di quelli a quattro. A rendere ancora pi&ugrave; complicata la situazione provvede il sistema di scarico che assicura un&rsquo;autentica sovralimentazione grazie allo sfruttamento delle onde di pressione, che contribuisce in misura assai significativa al riempimento del cilindro.    Nei 2T delle 125 da Gran Premio la situazione per quanto riguarda i travasi era praticamente standardizzata, con quattro laterali di portata e uno di correzione nella parete del cilindro opposta a quella di scarico. In quanto al sistema adottato per controllare l&rsquo;aspirazione, c&rsquo;era chi preferiva le lamelle e chi invece adottava una valvola a disco rotante. L&rsquo;Aprilia &egrave; sempre rimasta fedele a questo secondo sistema, che consente di ottenere una fasatura asimmetrica ma fissa e che permette di disporre di un condotto perfettamente libero da ostruzioni. La soluzione usuale &egrave; quella pi&ugrave; semplice, che prevede che il disco sia piazzato direttamente a un&rsquo;estremit&agrave; dell&rsquo;albero a gomito. In tal modo per&ograve; la miscela aria-carburante entra nella camera di manovella lateralmente e tende ad andare direttamente nella zona al di sotto del pistone. Una situazione eccellente ma non proprio ottimale ai fini del riempimento (e della lubrificazione dei rullini alloggiati nella testa della biella).&nbsp;  Per migliorarla si &egrave; pensato di piazzare il disco posteriormente, dietro la base del cilindro e con asse di rotazione perpendicolare a quello dell&rsquo;albero a gomiti. Costruttori come Konig (su un 4 cilindri boxer), Rotax (su un bicilindrico parallelo), Jawa e BBFT avevano gi&agrave; impiegato schemi di questo tipo quando esso &egrave; stato adottato dalla Aprilia per le sue ultime 125 ufficiali. In quest&rsquo;ultimo caso l&rsquo;asse di rotazione del disco non era centrale, ma spostato su di un lato. Ai fini della fluidodinamica questo non comportava alcuna differenza: la luce di aspirazione aveva egualmente la forma, le dimensioni e la posizione ottimali.  Le valvole a lamelle si aprono quando la pressione a valle (cio&egrave; nella camera di manovella) &egrave; inferiore a quella a monte, ossia alla pressione ambiente. La miscela aria-carburante che entra nel cilindro deve mantenere sollevate le lamelle per poter passare e questo comporta una lieve ma non trascurabile perdita di carico.&nbsp;  Il condotto presenta considerevoli variazioni geometriche e anche questo non &egrave; vantaggioso, dal punto di vista fluidodinamico. Per&ograve; queste valvole hanno il grande vantaggio di essere automatiche e di fornire una fasatura di aspirazione variabile in funzione delle effettive esigenze del motore. Inoltre, se il quinto travaso &egrave; in diretta comunicazione con il vano a valle del pacco lamellare, forti onde di pressione negativa provenienti dallo scarico possono far avvenire delle aperture secondarie delle lamelle, e anche questo &egrave; ovviamente positivo.&nbsp;  All&rsquo;atto pratico si &egrave; visto che le prestazioni in pista non differivano molto, adottando l&rsquo;una o l&rsquo;altra soluzione. In linea di massima con le lamelle il motore poteva essere un poco pi&ugrave; pronto nella erogazione quando si apriva il gas mentre con il disco poteva avere qualcosa di pi&ugrave; in alto, ossia in termini di potenza massima.  In quanto a schemi costruttivi e a soluzioni impiegate, i monocilindrici delle Moto3, che hanno una cilindrata di 250 cm3, possono in larga misura essere considerati autentiche &ldquo;fette&rdquo; dei 1000 a quattro cilindri. A differenza di quanto avveniva per le 125 da GP, per realizzare questi 4T i progettisti hanno dovuto tenere conto delle limitazioni poste dal regolamento. A essere interessati sono principalmente il massimo alesaggio (81 mm), le molle delle valvole (che non possono essere pneumatiche), il massimo regime di rotazione raggiungibile e il sistema di comando della distribuzione. Quest&rsquo;ultimo deve prevedere una catena, la quale pu&ograve; trasmettere il moto non direttamente ma con l&rsquo;ausilio di due o tre ingranaggi. Per i pi&ugrave; spinti tra i 1000 sportivi di serie a quattro cilindri si parla di potenze superiori a 215 cavalli (magari con un kit o con diversa mappatura pi&ugrave; scarichi speciali). Si potrebbe pensare che un monocilindrico di 250 cm3 ottenuto tagliando una fetta di uno di tali motori dovrebbe quindi erogare attorno a 54 cavalli. E che, una versione da corsa dovrebbe avere una potenza ancora pi&ugrave; elevata.&nbsp;    Si deve per&ograve; tenere presente che le potenze dei quadricilindrici in questione vengono erogate a regimi pi&ugrave; alti di quello massimo ammesso dal regolamento per le Moto3, che, quindi, potrebbero erogare potenze pi&ugrave; elevate di quelle attuali, andando per&ograve; incontro a maggiori problemi di affidabilit&agrave; e costi di manutenzione pi&ugrave; alti. I regimi di potenza massima della Honda CBR1000RR e della Ducati Panigale V4 R sono pi&ugrave; alti rispettivamente di 1000 e di 1750 giri/min.  Le ultime 125 da GP erogavano potenze leggermente superiori a 50 cavalli e le attuali Moto3 sono su valori analoghi. Una differenza significativa &egrave; costituita dalla distanza tra il regime di coppia massima e quello di potenza massima, che risulta notevolmente maggiore per le 250 a quattro tempi (un vantaggio non da poco!). Per avere un&rsquo;idea, quando la Honda ha sostituito come moto da competizione &ldquo;entry level&rdquo; la 125 a due tempi RS 125 R con la Moto3 NSF 250R, la distanza in questione &egrave; passata da 700 a 2000 giri/min! Il regime al quale veniva ottenuta la potenza massima era molto simile in entrambi i casi (rispettivamente 12.250 e di 13.000 giri/min).  Dunque il motore a due tempi eroga pi&ugrave; o meno la stessa potenza di quello a quattro, che ha una cilindrata doppia. Ci&ograve; accade in questo caso, perch&eacute; il 250 della Moto3 &egrave; limitato dal regolamento in quanto a regime di rotazione. Se non ci fossero tale limitazione e quella relativa al massimo alesaggio consentito le cose starebbero diversamente. Basta pensare che i motori di Formula 1 dei primi anni Duemila sono arrivati ad avere potenze specifiche leggermente superiori a 300 CV/litro. I migliori 2T da GP hanno raggiunto i 400 CV/litro o poco pi&ugrave;. Dunque una potenza specifica pi&ugrave; alta ma non certo doppia!  Esaminando l&rsquo;evoluzione sub&igrave;ta dai motori da competizione nel corso degli anni salta agli occhi come, mentre per quelli a quattro tempi si &egrave; avuta una graduale riduzione del rapporto corsa/alesaggio, compatibilmente con l&rsquo;esigenza di contenere gli ingombri (e con i limiti eventualmente stabiliti dai regolamenti), per i 2T ci&ograve; non &egrave; avvenuto. Nelle attuali Moto3 tale rapporto, a causa del regolamento che limita l&rsquo;alesaggio, &egrave; 0,598. Risulta cio&egrave; molto inferiore rispetto a quelli che si impiegavano negli anni Sessanta, anche se assai lontano dallo 0,405 raggiunto da alcuni motori di F1 dei primi anni Duemila.  I motori 125 monocilindrici da competizione a due tempi di inizio anni Sessanta avevano un alesaggio di 54 mm e una corsa di 54 mm (spesso si arrivava a 54,5 per ottenere la cilindrata piena). Quelli dei primi anni Duemila, che erogavano una potenza pi&ugrave; che doppia, avevano le stesse misure caratteristiche. Sotto questo aspetto &ldquo;geometrico&rdquo; dunque non ci sono stati cambiamenti! La cosa si spiega facilmente. Ferma restando la cilindrata unitaria (125 cm3 nel nostro caso), la superficie laterale del cilindro aumenta al crescere del rapporto corsa/alesaggio. E siccome le luci si aprono nelle pareti della canna, si ha evidentemente un vantaggio. Occorre per&ograve; osservare che al crescere della corsa aumenta la velocit&agrave; media del pistone e con essa crescono le sollecitazioni meccaniche. Dunque, se le corse lunghe sono vantaggiose, non si deve esagerare in tale direzione. Le misure &ldquo;quadre&rdquo; sembrano il miglior compromesso.  MotoGP in staccata: freno e vado pi&ugrave; forte 

Il 2011 &egrave; stato l&rsquo;ultimo anno delle 125 nel Motomondiale. Dal 2012, infatti, la ottavo di litro a due tempi &egrave; stata sostituita dalla Moto3, 250 a quattro tempi. Ecco le differenze tecniche tra le due categorie

Tecnica: Moto3 Vs. 125GP, le piccole pesti del Motomondiale

Stagione 3 - Episodio 12. &quot;BMW R nineT Urban GS&hellip; per il ciclo&hellip; il bicilindrico boxer raffreddato ad aria e olio non muore mai e&hellip; romba di brutto!&quot;.

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